domenica, agosto 21, 2011

Una luce spenta...

"Lanterna Verde"
(or. "Green Lantern")
Regia di Martin Campbell, USA, 2011.


Hal Jordan (Ryan Reynolds) è un pilota collaudatore di aerei da guerra, spericolato, sfrontato, pieno di sé, irresponsabile eppure vulnerabile nell'animo a causa dei traumi del suo passato. Quando l'alieno Abin Sur arriva morente sul pianeta Terra, su Hal ricadrà il compito di succedergli e di entrare nel corpo delle "Lanterne Verdi", una squadra cosmica speciale cui è affidato il compito di vegliare sull'Universo e di sventare i pericoli che lo minacciano, grazie all'utilizzo di uno speciale anello che dona ai suoi possessori superpoteri immensi. Spaventato dalla responsabilità che il ruolo comporta, Hal tentennerà parecchio, ma, quando la minaccia dell'entità aliena Parallax, incarnazione del sentimento della Paura, giunge sulla Terra, la scelta di vestire i panni dell'eroe sarà d'importanza vitale per il suo pianeta e per i suoi affetti.

Ispirato all'omonima serie a fumetti statunitense nata negli anni '40 ed edita dalla DC Comics, il film ripropone uno degli eroi fumettistici di maggiore successo della casa editrice.

A voler indagare a fondo questa trasposizione cinematografica, bisognerebbe prima essere dei conoscitori dell'universo fantastico dal quale proviene e cui fa riferimento, tuttavia, non potendo il sottoscritto annoverarsi tra gli esperti del genere e constatando la titanica impresa di districarsi tra migliaia di episodi pubblicati nel corso dei decenni tra continuum paralleli, universi alternativi, cross-over, team-up, spin-off, reboot e canoni rivisitati, non ci resta altro che la possibilità di valutare la pellicola come prodotto di intrattenimento in sé e valutarla singolarmente.

Concretizzatosi dopo il naufragio dell'idea di portare sullo schermo una versione comica del personaggio, interpretata da Jack Black, e giunto in produzione dopo diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura, ad opera di differenti autori, il film rende chiaro, sin dalle prime sequenze, come la Warner abbia scelto di distribuire un prodotto dalle spiccate qualità effettistiche e visive, spingendo molto sull'utilizzo della computer grafica più consistente e sul richiamo che il personaggio di Lanterna Verde (ed il 3D) avrebbero esercitato su un pubblico da multiplex; tuttavia, superato l'impatto iniziale che la confezione può sortire sullo spettatore, ci si rende conto molto presto della totale esilità della sostanza narrativa: una infinita sequela di melensi dialoghi pleonastici e ripetitivi di insopportabile banalità (propinati ad ogni pie' sospinto da un cast di interpreti bellocci e senza troppa anima), ed il susseguirsi di scene che cadono nel didascalismo più disarmante, telefonano già nei primi minuti il prevedibile sviluppo ed epilogo dell'intreccio (per altro, quasi inesistente) e ci lasciano quale unico impegno quello di guardare gli effetti speciali dall'immancabile ed invadente predominanza cromatica verde.

Martin Campbell, neozelandese cresciuto professionalmente nella televisione inglese, che ha firmato diversi film hollywoodiani da botteghino ("Agente 007 - GoldenEye", "Vertical Limit", "La maschera di Zorro", tanto per citarne alcuni), si mostra piuttosto disinvolto ed a proprio agio nella resa delle sequenze d'azione e combattimento, alcune delle quali abbastanza godibili, ma, purtroppo, manca dello spessore, dell'originalità o anche della semplice lucidità di visione che nomi del calibro di Christopher Nolan ("Batman Begins" e "Il Cavaliere Oscuro"), Ang Lee ("Hulk") o Sam Raimi ("Spider-Man") hanno saputo sfoderare quando si sono cimentati con le loro versioni di eroi d'inchiostro; Campbell ci lascia così negli occhi e nella mente la sensazione che "Lanterna Verde" sia il frutto del più effimero intrattenimento infantile, poco più che un vuoto giocattolo, un'anteprima di quella che potrebbe essere un'ennesima saga cinefumettistica pronta a snocciolare in sala e con cadenza annuale i suoi futuri episodi. Oppure, chissà che non ci si debba aspettare, come nel caso del progetto de "I Vendicatori" al quale stanno lavorando i Marvel Studios, un più ampio progetto che riunirà in un unico franchise tutti gli eroi DC della "Justice League of America"?!

Da ignorare senza troppi rimpianti.




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domenica, giugno 27, 2010

La parete che non c'è

"Synecdoche, New York"
Scritto e diretto da Charlie Kaufman, USA, 2008.

Eccentrica, struggente e visionaria parabola esistenziale e creativa di Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), regista teatrale con profondi problemi di instabilità emotiva e sul suo tentativo di racchiudere la complessità della propria vita affettiva e relazionale in una monumentale quanto impossibile opera teatrale.

Opera prima di Kaufman nelle vesti di regista, questo film accentua e sublima tutti i pregi ed i difetti che il cervellotico autore ha sempre riversato nelle precedenti sceneggiature (due tra tutte, "Essere John Malkovich" e "Il ladro di orchidee"), senza lesinare nei suoi classici cliché sulla fusione dei diversi piani della realtà e sullo sdoppiamento delle identità.

Il risultato è prolisso, labirintico, discontinuo e così poeticamente eccentrico da risultare amabile allo spettatore che non teme di entrare e di lasciarsi andare nella "casa di specchi" di riferimenti e riflessi senza fine che si trova qui come in ogni suo film.
Come in un frattale, il nostro sguardo si perde dentro la vita del regista Cotard, vi intravede parte della propria e vi scorge, a tratti, il trucco beffardo della scrittura dell'autore e l'ammiccante gioco di rottura della "quarta parete".

Ottimo cast. Scenografie mirabili. Regia completamente asservita alla scrittura teatrale e metateatrale. In parole povere, una chicca destinata SOLO ad un pubblico preparato o disponibile ad una esperienza insolita o agli irriducibili ammiratori di Philip Seymour Hoffman (perno centrale dell'intera pellicola, ma non unico interprete notevole).
Vivamente sconsigliato ai partigiani del "canone narrativo".

ATTENZIONE: da quanto ho capito, il film non è mai uscito in edizione italiana, per cui, se voleste vederlo, vi toccherà procurarvi una copia in edizione originale.

Buona visione!

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martedì, giugno 15, 2010

Distopie d'autore

"Alphaville"
(or. "Alphaville: Une étrange aventure de Lemmy Caution")
Scritto e diretto da Jean-Luc Godard, Francia, 1965.


Arrivato nella città di Alphaville sotto le mentite spoglie di un giornalista, l'agente segreto Lemmy Caution (Eddie Constantine) indaga e s'intrufola tra le maglie di una società organizzata e retta da un computer nel nome di una logica razionale e suprema.

Storia di fantascienza distopica in stile hard boiled, questo film del maestro della Nouvelle Vague si distingue per la sublime resa visiva che affascina e mesmerizza ancora più della linea narrativa troppo spesso sacrificata ai dialoghi fortemente impregnati di una poesia quasi troppo intellettualistica.

Nell'eterna "competizione" tra Godard e Truffaut, questo è uno dei film che mi farebbe schierare dalla parte del secondo...

Raccomandato solo a cinefili incalliti dal 5° dan in su... ;o)


Buona visione!


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martedì, giugno 08, 2010

Yankees goes to Tokyo!

"The Fast and the Furious: Tokyo Drift"
Regia di Justin Lin, USA/Giappone, 2006.

Sean Boswell (Lucas Black), è un ragazzo inquieto che cerca di compensare i disastri di una vita familiare inesistente con la passione per le quattro ruote e le corse clandestine. Dopo l'ennesimo disastro provocato in una sfida tra coetanei, la madre rinuncia all'ennesimo trasferimento di città e decide di mandare il figlio in Giappone, dove vive il padre, militare di stanza a Tokyo.
Giunto nella capitale del Sol Levante, Sean dovrà ancora una volta faticare per crearsi delle amicizie ed imparare a guidare con lo stile del drifting per tenere testa al campione locale.

Dopo la visione di "Initial D" e "Tokyo!", mi sembrava doveroso completare questa ideale serie logica con questo episodio del franchise di "The Fast and The Furious".

Sceneggiatura canonica (che più canonica non si può) e abbastanza prevedibile. Per fortuna, invece, la regia, affidata al taiwanese Justin Lin, supera di gran lunga l'estetica pseudo-adrenalinico-clippettara delle prime due pellicole della serie.

Il risultato è narrativamente scontato ed elementare, in compenso, se siete amanti di "drift" e derapate, il film è pieno zeppo di stunt da far sbavare...

Menzione speciale per il cameo di Sonny Chiba (l'Hattori Hanzo che ricorderete in "Kill Bill") e la comparsa di Keiichi Tsuchiya (pilota giapponese, meglio noto come "Drift King", uno di quelli che maggiormente ha sviluppato e reso noto questo stile di guida).

AVVERTENZA: i "puristi" potrebbero avere un malore nella parte in cui il motore di una Nissan viene montato su una Ford Mustang fastback del '67! (BLASFEMIA! BLASFEMIA!) Non dite che non vi avevo avvertito!


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venerdì, giugno 04, 2010

Una spietata Terra Promessa

"Valhalla Rising"
Regia di Nicolas Winding Refn, Danimarca/Regno Unito, 2009.

Brutale epopea di One-Eye (Mads Mikkelsen), guerriero muto schiavo di un clan vichingo. Riuscito a liberarsi dai propri carcerieri, si imbarca, insieme ad un gruppo di vichinghi cristiani alla volta della Terra Santa, ma finirà col trovarsi in una misteriosa terra sconosciuta dove la bellezza sconfinata della natura sembra riservare solo oscuri presagi.

Violento e visionario film dai dialoghi molto radi e scarni. Il debito verso "Aguirre, furore di Dio" di Herzog è evidente, tuttavia, in alcuni momenti il film indugia un po' troppo in una languida ed enigmatica teatralità alquanto lontana dall'ispirazione e della potenza immaginifica del maestro tedesco.
Il risultato, comunque non manca di una certa suggestività.

Assolutamente sconsigliato a coloro che cercano un film di semplice intrattenimento.
Consigliato ai curiosi ed a chi non si fa intimidire dalla visione di un film appena un po' più criptico e simbolico...

Buona visione!


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giovedì, giugno 03, 2010

Gli dei delle corse

"Initial D"
Regia di Andrew Lau e Alan Mak, Hong Kong, 2005.

Takumi Fujiwara (Jay Chou) è un giovane timido e taciturno che divide il suo tempo tra la scuola, la stazione di servizio nella quale lavora e le consegne notturne di tofu per conto del padre, un uomo violento e dedito all'alcool con un glorioso passato da pilota automobilistico. Quando alcuni piloti "street racer" arrivano in città per sfidare il misterioso pilota che guida di notte, magistralmente, sui tortuosi tornanti del monte Akina, gli amici di Takumi scopriranno che il cosiddetto "Dio delle Corse del Monte Akina" altri non è che il loro compagno. Takumi sarà allora costretto a confrontarsi in una serie di sfide ad alta velocità sempre più difficili e dovrà fare i conti col proprio talento e col difficile rapporto che c'è tra lui ed il padre.

Trasposizione in pellicola della serie di manga e anime creata da Shuichi Shigeno, il film conserva tutti i tic, i difetti ed i limiti delle classiche serie giapponesi meno "adulte", cionondimeno, gode comunque di una certa "freschezza" (forse anche un po' ingenua), frutto del tocco dei registi, esperti professionisti del cinema d'azione di Hong Kong .

Solo per appassionati di manga o per feticisti del "drift".


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martedì, marzo 09, 2010

La natura selvaggia dei sentimenti

"Nel Paese delle Creature Selvagge"
(or. "Where the Wild Things Are")
Regia di Spike Jonze, USA, 2009.


Max (Max Records) è un ragazzino in età preadolescenziale animato da una più che spiccata fantasia, da una esplosiva energia vitale e da un'altrettanto incontrollabile necessità di attenzioni. Un giorno, dopo l'ennesima incomprensione con la madre e la sorella, fugge di casa e finisce in una lontana foresta popolata da misteriose creature fantastiche tanto goffe quanto devastanti.

Pubblicato per la prima volta nel 1963, “Where the Wild Things Are” è un classico della letteratura per ragazzi scritto ed illustrato da Maurice Sendak. Un’opera molto conosciuta ed apprezzata negli USA, al punto di essere stata più volte realizzata in forma di cortometraggio animato con tecniche classiche o digitali. Qui, però, vede per la prima volta la luce nella veste di lungometraggio.

Dopo parecchi tentativi di produzione (alcuni dei quali, addirittura, firmati Disney), la storia raggiunge il grande schermo per mano di Spike Jonze, uno dei registi più innovativi, originali ed imprevedibili della “nuova Hollywood”. L’impronta del regista non è affatto secondaria, tanto per motivi produttivi (sembra che l’iniziale interessamento della Universal sia venuto meno proprio a causa di divergenze con lo stesso Jonze) quanto per motivi prettamente stilistici.

Videomaker dinamico, formatosi realizzando video di skate e videoclip musicali e poi cresciuto cinematograficamente a fianco del visionario sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich e Il Ladro di Orchidee), Spike Jonze ha voluto escludere da subito una versione totalmente animata ed ha optato per un film “dal vero”, affidando la realizzazione delle “creature” al Jim Henson Workshop (The Muppet Show e Labyrinth, tanto per dirne un paio) e limitando la computer grafica ad alcuni apporti in postproduzione, per donare un’impressione di maggiore concretezza corporea all’intero film.

Sul piano della narrazione, la sceneggiatura è molto molto semplice, la rappresentazione, tuttavia, è alquanto complessa e viscerale. Non ci troviamo di fronte ad un “semplice” film per ragazzi. La rappresentazione delle pulsioni del giovane Max sono, anzi, rappresentate in maniera molto sottile e sfumata, al limite dell’introspettivo, e la sua interazione con le “creature selvagge” ci dice dell’uomo moderno molto di più di qualsiasi manuale sui rapporti interpersonali. I momenti più rarefatti si alternano a vere e proprie deflagrazioni di energia vitale e l’andamento ondivago della narrazione rispecchia pienamente l’alternarsi repentino degli stati d’animo di Max, sempre in bilico tra la voglia di dar libero sfogo agli istinti e la ricerca di un sentimento sincero. Non a caso, la stessa casa di produzione, visto il risultato, ha rinunciato ad una promozione mirata ad un target giovanile ed ha finito col pubblicizzare il film come prodotto per un pubblico adulto.

La natura sfuggente e multiforme di questa pellicola mi dice già che i suoi estimatori non saranno in tanti, eppure mi sento di dire che sia un film mirabile, dolce, forte, energico e pregno di significati profondi anche lì dove sembra più superficiale.

Di certo non un film per tutti.

Consigliato agli amanti dei pupazzoni della “vecchia scuola” ed a tutti quelli che sanno vedere, oltre l’apparente spensieratezza dei ragazzini, quegli innati moti del cuore che si portano appresso anche da grandi…


Buona visione!






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mercoledì, marzo 03, 2010

Polvere di stella

"JCVD - Nessuna giustizia"
Regia di Mabrouk El Mechri, Belgio/Lussemburgo/Francia, 2008.

In un periodo particolarmente buio della propria vita e carriera, Jean-Claude Van Damme (nella parte di se stesso) torna nel proprio paese natale in Belgio, ma, entrando in un ufficio postale per una normale operazione di routine, viene coinvolto in una rapina in atto. Il confronto tra il coraggioso eroe-karateca dell'immaginario cinematografico e l'uomo "reale" con le sue debolezze e vulnerabilità sarà inevitabile.

A quasi cinquant'anni e con diverse fasi di altalenante successo alle spalle, Van Damme qui si mette in gioco accettando di prendersi in giro e svelare glorie e miserie della propria carriera in un film che, partendo dal classico schema dell'hostage movie, mescola realtà e finzione in maniera paradossale ed arguta.

Tra Quel pomeriggio di un giorno da cani ed Essere John Malkovich, questa pellicola prende dal primo una prosa filmica asciutta ed efficace e dal secondo il gioco intellettuale del metafilmico. Il tono generale del film, però, è quasi sempre di un grottesco ironico ed intelligente, gioca con gli stilemi classici del film-rapina arricchendosi di finezze registiche che alludono a certi grandi classici, ma senza prendersi mai troppo sul serio, mentre la fotografia pallida e desaturata sembra sottolineare le tracce del tempo (e della quotidianità) sul corpo ormai segnato dell'attore-atleta e i diversi dialoghi improvvisati non fanno che sottolineare questi giochi di senso. Direi che, in questo caso, l'impronta europea riesca a dare alla pellicola quel tocco di sapido in più.

Al contrario di altre recensioni che ho letto, però, ho reputato del tutto pleonastico ed evitabilissimo il famoso monologo-confessione di sei minuti voluto dallo sceneggiatore-regista ed improvvisato da Van Damme attingendo al proprio vissuto di star dagli altalenanti successi. Si potrebbe dire che basterebbero le inquadrature, i silenzi ed il confronto con gli altri personaggi (uno per tutti, il dialogo in taxi tra l'attore e l'autista) a dire molto di più di qualsiasi "mea culpa" e che lo spiattellamento delle proprie miserie non possa che risultare soltanto triste e patetico, quasi quanto denudare i propri sentimenti nel "confessionale" di un reality/celebrity show.

In sostanza, un film divertente, intrigante ed anche significativo, metafilmico ma senza eccessi cervellotici. Perfettamente sintetizzato nella metafora della contrapposizione tra l'ufficio postale sotto assedio e la videoteca di fronte.


Buona visione!



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martedì, marzo 02, 2010

L'Uomo visto dalla Luna

"Moon"
Regia di Duncan Jones, GB, 2009.

Sam Bell (Sam Rockwell) è l'unico tecnico e abitante di una stazione mineraria sulla luna, la cui sola compagnia è costituita dal computer parlante GERTY (nella versione originale doppiato da Kevin Spacey). Giunto al termine dei suoi tre anni di contratto, Sam patisce sempre più il peso di un isolamento così prolungato e della lontananza dai suoi familiari. Un incidente dovuto alla stanchezza, però, lo obbligherà a confrontarsi con se stesso e con alcune amare verità.

Un po' "2001: Odissea nello spazio", un po' "Solaris", un po' "Alien", un po' "Atmosfera Zero", questo bell'esempio di fantascienza indipendente, più che scimmiottare, omaggia degnamente i classici della "fantascienza umanistica" e, a livello visivo, rinuncia alla scelta facile degli effetti digitali per ricorrere alla tecnica dei modellini.

Semplice, ma ben girato. Tagliato e cucito (ovvero scritto) su misura per Sam Rockwell, perfettamente a proprio agio nella parte dello stralunato (perdonatemi il gioco di parole) al limite della follia.

Uno di quegli esempi di fantascienza che parlano dell'Uomo e non puntano sull'appeal dell'effetto speciale baluginante.
È incredibile come il ristretto spazio scenico della base mineraria della Lunar riesca ad essere più significativo di qualsiasi mirabolante ripresa aerea sulla iperdettagliata fauna del cameroniano pianeta Pandora!...

Vivamente consigliato agli amanti dei racconti di Asimov, Bradbury e Sheckley, ai nostalgici della fantascienza cinematografica di fine anni '70/primi '80 ed a tutti quelli che hanno sognato su certe belle storie a fumetti con gli astronauti solitari nel nulla dello spazio...



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lunedì, marzo 01, 2010

Niente di personale...

"Interview"
Regia di Steve Buscemi, USA, 2007.

...confronto di personalità "irregolari" ed un po' autodistruttive nell'intervista/scontro tra un disilluso giornalista politico (Steve Buscemi) ed una capricciosa starlette sulla cresta dell'onda (Sienna Miller).

Il film è il remake dell'omonimo film del 2003 del defunto regista olandese Theo Van Gogh.

Non conosco la versione originale di questa pellicola, la versione di Buscemi, però, l'ho trovata interessante nelle intenzioni, ma poco riuscita all'atto pratico.

Film esclusivamente "attoriale", presto disperde l'interesse nei ripetuti tentennamenti dei personaggi e nella loro condotta "ondivaga".
Peccato, perché il finale è bello... forse avrebbe potuto reggere meglio dei tempi da corto o, al massimo, da mediometraggio.

Da quanto ho sentito, è il primo film di una prevista trilogia di remake americani dall'opera del regista olandese.

Consigliato solo ai fan di Buscemi ed agli inguaribili patiti del Cinema indipendente.


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sabato, febbraio 27, 2010

Come volevasi dimostrare...

"Oxford Murders - Teorema di un delitto"
(or. "The Oxford Murders")
Regia di Alex de la Iglesia, Spagna/Francia/UK, 2008.


Martin (Elijah Wood), studente americano in cerca di affermazione accademica, si trasferisce ad Oxford per condurre un dottorato con l'emerito professore di Logica Arthur Seldom (John Hurt). A dispetto del disastroso approccio iniziale, i due si troveranno presto coinvolti in una serie di delitti che li sfiora da molto vicino e che proveranno a risolvere come fossero un complesso problema matematico.

Solito giallo da intrattenimento con poche pretese, ma infarcito di pseudocitazioni filosofico-matematiche un po' fuori luogo (ed alquanto "ad minchiam").

La trama è esile, l'interpretazione degli attori sempre sopra o sotto le righe, la regia non è male, ma, sinceramente, penso che qui de la Iglesia si sia preso un po' troppo sul serio o abbia rinunciato a "lasciarsi andare".

Ultimamente, sembra che la matematica sia un attrazione troppo ghiotta per gli scrittori e gli sceneggiatori (tanto del grande quanto del piccolo schermo) che provano a sbolognare crime-stories poco convincenti. Il risultato, però, mostra troppo spesso il fianco e, allora, sarebbe forse meglio lasciare in pace Fibonacci, Heisenberg e Wittgenstein e provare a sforzarsi un po' di più per partorire qualche sceneggiatura un po' più solida.

Da vedere?... Solo per salvarsi da una maratona-Sanremo o dalla diretta del Grande Fratello!...


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mercoledì, febbraio 24, 2010

Quei maledetti anni '80...

"The Informers - Vite oltre il limite"
Regia di Gregor Jordan, USA/Germania, 2009.

Tratto dal libro di Bret Easton Ellis intitolato "Acqua dal Sole" (or. "The Informers") del 1994, il film è un racconto corale che narra la girandola di vite a base di sesso, droghe ed apatia nelle vite tanto lussuose quanto annoiate di una cerchia di personaggi dell'alta società losangeliana del 1983, mentre intorno a loro aleggia l'ombra dell'HIV.

Non ho mai letto niente di Bret Easton Ellis, ma dopo "American Psycho" e questo "The Informers", comincio a pensare che i suoi libri non siano adatti alla trasposizione cinematografica... o, forse, sarà solo sfiga?...

In fondo, a noi che gli anni '80 li abbiamo vissuti nella provincia italiana, tra i miraggi della Milano tutta moda e Ramazzotti e gli spot delle merendine sulle tv commerciali, questi anni '80 losangeliani a base di soldi, sesso promiscuo e droghe di lusso, sembrano qualcosa di estraneo, quasi alieno.
Il fatto, poi, che il film sia stato prodotto adesso (nel tempo in cui il tronfio edonismo narcotizzato è materia narrativa più che popolare, arrivando addirittura ad avere un filone tutto suo tra le produzioni seriali televisive come "Nip/Tuck" e "Californication", tanto per dirne un paio), probabilmente incide sull'impatto tematico che poté, invece, avere il libro al tempo della sua uscita in libreria!...

Or dunque, basta infarcire il cast di star controverse e dannate (Kim Basinger, Mickey Rourke, Billy Bob Thornton, Winona Rider, Brad Renfro, ecc ecc) per rendere altrettanto maledetta la trasposizione su pellicola di uno degli autori più maudit della narrativa statunitense contemporanea?!... L'esito di questo film, mi suggerirebbe di no e, a parte alcuni momenti interessanti (pochi, dal mio punto di vista), il tutto sembra scadere in una melensa e trascinata soap opera familiare a base di quegli eccessi patinati che noi, poveri mortali (per fortuna) non vivremo mai, dove le storie dei vari personaggi si sfiorano in maniera un po' insapore e con una meccanica alquanto artificiosa, infarcita di languidi sguardi depressi e dialoghi al limite del tautologico...

Da quanto ho letto, sembra che dal film sia stato escluso il personaggio di un vampiro, che era invece contemplato dalla versione letteraria. Peccato!... Chissà che la presenza di un personaggio sovrannaturale non potesse donare all'intero testo filmico una chiave di lettura un po' diversa e leggermente più interessante.

Da quanto ho visto, nello scintillio dell'intera mise en scène della pellicola, tra le scialbe chiome platinate e ingelatinate ed i pallidi interni minimal-chic, spiccano con una certa forza il personaggio di Rourke (al quale, ormai, basta mostrare il proprio degrado fisico per riempire lo schermo della decadenza associata ai suoi personaggi) e la timida e insicura vulnerabilità del personaggio di Jack, reso da un ottimo Brad Renfro (qui alla sua ultima apparizione sullo schermo, prima della prematura scomparsa).

Consigliato?... ASSOLUTAMENTE NO!... Con buona pace dello scrittore Ellis, accreditato quale produttore esecutivo, ma subito dissociatosi dalla pellicola una volta visto il risultato finale!...


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mercoledì, febbraio 03, 2010

Le irrealtà gemelle

"Fur -
Ritratto immaginario di Diane Arbus"

Regia di Steven Shainberg, USA, 2006.

Da lungo tempo aspettavo l'occasione di vedere questo film, non tanto per il riferimento alla vita della fotografa statunitense Diane Arbus (in realtà, sono molto poco propenso al genere "biopic") quanto per il fatto che questa pellicola uscisse dalle mani di Steven Shainberg, regista che ho avuto modo di apprezzare per il suo precedente "Secretary".
Avuta finalmente l'occasione, posso adesso considerare la mia curiosità soddisfatta. Non posso, invece, considerare altrettanto soddisfatto il mio (personalissimo) gusto cinematografico.

Il film, invero poco o niente biografico, si propone di raccontare sotto forma di flashback una interpretazione romanzata del progressivo distacco della Arbus (interpretata da Nicole Kidman) dal suo ambiente alto-borghese intessuto di formalità ed il momento di autocoscienza che la fece approdare a quella ribelle ispirazione fotografica che i suoi estimatori e gli appassionati di fotografia le riconoscono.
Alla fine degli anni '50, moglie impeccabile, tanto inquieta quanto assoggettata ai doveri che lo status sociale le impone, Diane vive con frustrante disagio dentro la cornice di patinata mondanità che le è stata imposta dalla famiglia di origine e dal marito, fotografo di moda, fino al giorno in cui, l'arrivo nel proprio stabile di un nuovo inquilino misterioso ed eccentrico, la spinge ad un'esplorazione dei propri istinti di donna e di fotografa e la muove verso quella che diverrà la sua poetica del marginale e del mostruoso quotidiano.

Vagamente basato sulla biografia scritta dalla giornalista Patricia Bosworth, il film di Shainberg si distacca immediatamente da qualsiasi realismo per costruire una narrazione dai toni irreali. Non a caso, a conclusione dei titoli di coda, il regista ci tiene a precisare che gli eventi illustrati nel film sono in buona parte frutto di fantasia. Mi sembra, dunque, che la chiave di lettura di questo curioso testo cinematografico sia più quello dell'omaggio che non quello della ricostruzione.
Sul piano della narrazione fiction, però, mi sembra di poter dire che il film sia ancora più deficitario.

Se già nel succitato "Secretary" Shainberg aveva dato un ottimo esempio di come si possano vivere, narrare e rappresentare su celluloide le legittime "perversioni" umane con uno spirito leggero ed una nutrita dose di ironia, nel caso di questo "Fur", questa poetica sembra non funzionare. La messa in scena rigorosa e tenue al tempo stesso, le luci piatte e le dominanti pastello (anche nelle scene negli interni più decadenti, quali, ad esempio, l'appartamento di Lionel) non seguono di pari passo gli episodi della vita della protagonista e, ad una regia attenta alle costruzioni visive non corrisponde una sceneggiatura altrettanto interessante.

Lo spunto più interessante di questo film è quello di non badare tanto alla veridicità della storia, quanto di tentare un'esplorazione nell'universo psicologico e visivo che ha caratterizzato l'intera opera della Arbus. L'esperimento fallisce abbastanza in fretta non appena la sceneggiatura decide di svelare tutti i misteri che stanno dietro la porta del vicino Lionel (interpretato da Robert Downey Jr.) riducendosi così ad una inconsistente storia sentimentale vagamente melodrammatica.

La prova d'attrice della Kidman è valida, sebbene la sua compostezza "imborghesita" sembra più in linea con la parte del film che ho meno apprezzato, mentre Downey Jr. (nascosto da abiti, maschere e peli per la quasi totalità del film) appare quasi schiavo delle commedie da teenager che ha abbondantemente interpretato negli anni '80 e non riesce a regalare al suo personaggio lo spessore che meriterebbe.

Interessanti le scenografie ed i costumi (in particolare le maschere di Lionel), peccato che questi (così come il tema ricorrente dei capelli e dei peli umani ed animali) vengano declassati a semplice elemento di bizzarro leitmotiv superficiale.

Da vedere?... Non so. Penso che a Stanley Kubrick è bastata una inquadratura per avvicinarsi allo spirito della Arbus molto di più di quanto Shainberg abbia fatto con un intero film!


Solo per curiosi.




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mercoledì, ottobre 14, 2009

Good morning, USA!...

"L'uomo dell'anno"
Scritto e diretto da Barry Levinson, USA, 2006.

Cosa accade quando il presentatore comico-satirico Tom Dobbs (Robin Williams) si candida e vince le elezioni presidenziali USA?...

A distanza di quasi dieci anni, dopo l'arguto "Wag the Dog" (in Italia, purtroppo, intitolato "Sesso & Potere"), Levinson torna sugli schermi con una commedia satirica di tema politico, in buona parte affidata alla faccia di Robin Williams, che già aveva interpretato l'apprezzabile "Good Morning, Vietnam".

A fronte di temi di grandissima attualità quali quelli dei brogli elettorali e delle votazioni elettroniche, Levinson sembra promettere, sulle prime, una gustosa commedia al vetriolo che non risparmi critiche feroci sul sistema politico bipolare degli Stati Uniti e sull'invadenza delle lobby, ma presto compie una visibile "retromarcia" per assestarsi su toni da commedia "addomesticata" che arriva, addirittura, a "redimere" e "giustificare" il bersaglio della propria satira.

Regista-sceneggiatore hollywoodiano di mestiere, Levinson compie il suo lavoro da professionista, con una regia onorevole ma senza troppi guizzi di originalità, dichiara esplicitamente il rapporto dialettico tra cinema e televisione, ma si svincola frettolosamente dalle implicazioni più interessanti della sceneggiatura e della rappresentazione filmica, nella speranza che Williams regga da sé le sorti della storia. Robin Williams, però, non ha più la verve e la fisicità che lo hanno portato al successo e spesso risulta rigido e "gommoso" nella sua interpretazione, stemperando nei "buoni sentimenti" la vena caustica che il suo personaggio potrebbe/dovrebbe avere.

Un'occasione mancata, insomma, che amareggia ancora di più in relazione allo spreco delle sue potenzialità critiche e che perde decisamente nel confronto col precedente "Wag the Dog".

Per rendere l'idea... cosa accadrebbe in Italia, se Beppe Grillo vincesse le elezioni?!?...


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sabato, ottobre 03, 2009

Il segreto dell'insuccesso

"Americani"
(tit. or. "Glengarry Glen Ross")

Regia di James Foley, scritto da David Mamet, USA, 1992.

Due giorni di lavoro presso un'agenzia immobiliare, durante i quali lo sparuto manipolo di venditori si trova a fronteggiare paure, problemi personali, ripicche tra colleghi, ipocrisie, l'angoscia di un mercato in forte crisi e lo spettro del licenziamento per chi non raggiungerà gli obiettivi prefissati dai cinici superiori.

Straordinario adattamento cinematografico di una pièce teatrale dello stesso Mamet (che gli è valsa il Premio Pulitzer), che spinge al parossismo e prende di mira la folle mistica, tutta americana, del "venditore d'assalto".

Un cast stellare, tutto maschile, che vanta nomi (e volti) veramente degni di nota: Al Pacino, Jack Lemmon, Ed Harris, Alan Arkin, Kevin Spacey, Jonathan Pryce.

Ottimo esempio di film teatrale, con dialoghi sferzanti e dal ritmo incalzante, interpreti in grande forma.
James Foley, regista di provenienza seriale televisiva e videoclippara, firma una elegante regia diligentemente al servizio degli attori.

Una fotografia ammirevole e, ad impreziosire il tutto, una colonna sonora jazz di tutto rispetto, opera di Wayne Shorter.

Semplicemente, un piccolo gioiello di cinema indipendente alla newyorkese.

Curiosa scelta per il titolo italiano, che sembra prendere le distanze da una realtà che non si vorrebbe appartenente al nostro paese, ma che, sappiamo bene, di avere importato già da un pezzo.

Caldamente raccomandato a chi ha apprezzato "The Big Kahuna" (di John Swanbeck, USA, 1999), del quale questo "Americani" sembra essere un nobile precursore ed un'antitesi al tempo stesso!...



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venerdì, ottobre 02, 2009

A suitcase of guns...

"Romanzo Criminale"
Regia di Michele Placido, Italia/Francia/Gran Bretagna, 2005.

Sulla falsa riga dei fatti della "Banda della Magliana", il film ricostruisce la carriera criminale di una banda di borgatari romani che decidono di conquistare la città e metterla ai loro piedi.

Il film si riallaccia a tragiche vicende del nostro paese, ma ammicca ai grandi "crime movie" d'oltreoceano (da De Palma a Tarantino). Il risultato è un po' un pastiche cinematografico che suggerisce grandi complotti di stato, ma poi si ferma ad una romantica apologia del bello e dannato, puntando sulla sfilza completa degli attori del nuovo cinema italiano (Santamaria, Accorsi, Scamarcio, Germano e tutto il resto della combriccola).

Interessante nelle intenzioni... un po' meno negli esiti. Si può dare di più...


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Accadde ieri

"La Guerra di Charlie Wilson"
Regia di Mike Nichols, USA, 2007.

Charlie Wilson (Tom Hanks) è uno spregiudicato deputato del Texas con la passione per la gonnella e la boccia di wiskey, che, per insistenza ed interesse di una sua ricca sostenitrice politica (e disinvolta amante), si incarica di incrementare le sovvenzioni e le forniture di armi ai mujaheddin afgani che combattono contro l'esercito sovietico, fino a dare origine alla più grossa operazione di "guerra segreta" nella storia.

Film verboso e un po' autocompiaciuto. Diverte in alcune scene brillanti, ma afferma e nega continuamente fino alla conclusione che sembra propendere per una lettura antifrastica della vicenda narrata.

Ottima prova d'attore per Phillip Seymour Hoffman, un attore che convince sempre di più ogni pellicola.

Personalmente, ho faticato parecchio ad empatizzare col personaggio principale (devo ammettere che, in genere, appartengo alla schiera di quelli che digeriscono poco Tom Hanks) e sospetto che il film sia fortemente indirizzato ad un pubblico americano, che stenta a ricordare oggi quel che è accaduto appena ieri.

L'apparente schiettezza di questa pellicola puzza un poco di "ruffianeria" visto che, per tutto il film, l'appoggio bellico degli Stati Uniti ai mujaheddin viene pasciuto quasi esclusivamente dietro la retorica ormai (tristemente) abusata della "necessità di esportare la democrazia", quasi non fosse risaputo che dietro la sovvenzione di guerre, ci sono, sempre e comunque, interessi economici, petroliferi e accondiscendenza verso i produttori di armi belliche.
La favola della "democrazia da esportazione", non convince più: basta guardare le evoluzioni politiche, economiche e belliche cui abbiamo assistito proprio in Afghanistan col regime dei talebani!...

Non mi sento di consigliarlo, ma immagino che a molti potrebbe piacere per via dell'argomento centrale e per via del taglio volutamente caustico.


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giovedì, ottobre 01, 2009

Poveri diavoli di provincia...

"Onora il padre e la madre"
(tit. or. "Before the Devil knows you're dead")

Regia di Sidney Lumet, USA, 2007.

Epopea al fiele sulle miserie umane ed i veleni familiari nei sobborghi residenziali della provincia newyorkese.
Nero... Nerissimo fino al paradosso, al punto da fare pensare ad una "black comedy"... qui, però, non c'è il sarcasmo caustico di un Todd Solondz né la goffaggine criminale dei Coen. C'è solo una spirale di anime perse dentro le proprie disillusioni e fallimenti.

Regia esemplare, ricercata ma senza ostentazione, da vero esperto cineasta quale è Sidney Lumet.

Attori splendidi (in particolar modo Philip Seymour Hoffman ed Albert Finney), forse un po' sviliti da un doppiaggio poco felice e molto sopra le righe.

Menzione speciale per Marisa Tomei nella parte della bellissima stupida e piena di frustrazioni.

Una piccola nota di disappunto per il titolo italiano che banalizza non poco i motivi portanti della storia. Infinitamente più esplicativo (e suggestivo) il titolo originale.

Vivamente consigliato a chi non teme di guardare sotto il tappeto nuovo di "suburbia"!


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mercoledì, settembre 30, 2009

Ipse Dixit... prodromi...



Di quello ho visto tutti i film: è un dilettante. I film di Rossellini provano solo che gli italiani sono attori nati e che in Italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi.

- Orson Welles, in "Cahiers du cinema" n. 88, 1958 -

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