giovedì, ottobre 12, 2006

Una innocente favola sado-maso

"Secretary", regia di Steven Shainberg, USA, 2002.

Le ceste dei dvd in offerta negli ipermercati, a saper "grufolare" per bene sul fondo, possono dare certe piacevoli soddisfazioni, come ad esempio il reperimento di quel titolo introvabile nelle videoteche o la scoperta di una perla sconosciuta della produzione cinematografica asiatica o quel film indipendente che qualche anno fa non hai fatto in tempo a vedere in sala.

Trovandomi davanti alla conturbante copertina di "Secretary" non ho saputo trattenermi e, complice il prezzo mooolto conveniente, non mi sono lasciato sfuggire l'occasione di aggiungerlo alla mia personale videoteca.

A lasciarsi suggestionare dalla suddetta copertina del dvd e a tenere conto dei più superficiali commenti che alludevano allo scandalo quando la pellicola uscì in sala qualche anno fa, ci sarebbe da credere di trovarsi di fronte ad uno di quei film dalla sessualità morbosa, accecante, contorta, fredda e spietata che ha fatto capolino in alcuni dei più spregiudicati film europei d'autore degli ultimi anni (ci tornano in mente, tra i tanti, "La Pianista" di M. Haneke e "Intimacy" di P. Chéreau); tuttavia, basta cominciare la visione del film per comprendere e godere la natura profondamente ironica del film ed il tono di commedia che lo distingue.

"Secretary" non è un porno-soft e non è neanche un film per appassionati del S/M vero, addirittura potrebbe non essere affatto un film erotico, più plausibilmente è un'innocente storia d'amore, amore ed autocoscienza, accettazione di sé, espressi attraverso alcune pratiche solitamente relegate (nel cinema più o meno vietato e nell'immaginario collettivo) nella sfera del perverso e del morboso, "Secretary", però, rovescia queste pratiche e le reinterpreta in chiave grottesca e quasi solare.

Il regista Shainberg firma una regia attenta, pacata (nonostante la macchina a mano, cifra stilistica ormai assunta a distintivo dichiarato del Cinema da Sundance) e, tuttavia, visibilmente euforica di cromatismi velatamente pop (per fortuna non si lascia minimamente tentare dai videoclippismi tanto in voga), mostra interni contemporanei dal sapore incollocabile ('80? '90? 2000?) e li edulcora fino alla nausea dell'oppressione cui sottopongono la protagonista Lee (Maggie Gyllenhaal); come se Cronenberg avesse lasciato girare un suo film a Tim Burton!
Il risultato è interessante e crea la cornice perfetta entro la quale si muovono protagonisti e comprimari.

L'interpretazione degli attori è sempre deliziosamente sopra le righe (effetto ancora più rimarcato da un doppiaggio italiano che oserei definire quantomeno enfatico) e sposa perfettamente la causa di questa favola del sadomasochismo gaudente.
Maggie Gyllenhaal, allude nel look e nelle aspirazioni alla tipica figura femminile del cinema hollywoodiano anni '50 (va in questo senso la sua esaltazione all'idea di un futuro da segretaria), col suo visino comune e ancora postadolescenziale e lo sguardo remissivo di una bimba impaurita tanto minuziosa e metodica nella gestione dei suoi strumenti di autotortura, ci guida attraverso la sua ricerca di identità e le frustrazioni di una vita all'insegna dello squallore più amaro (come da tradizione iconografica: padre alcolizzato, madre esaurita e sorella stronza); mostra, insomma, di destreggiarsi bene tra le pieghe del cinema indipendente e di sapersi proporre con una certa intelligenza.
James Spader, ulteriore rimembranza cronenberghiana, rivolta la sua espressione da ragazzo ammodo per farne la maschera contraddittoria di un avvocato in preda alle sue manie di perfezionismo e controllo assoluto, sempre al limite tra paranoia misantropica e despotismo inflessibile.

L'idea più interessante alla base dell'intero film è proprio quella di sfruttare il rovesciamento delle prospettive secondo il quale l'incubo è quello della deprimente esistenza mediocre e la felicità si ottiene con la realizzazione dei propri desideri reconditi (esplicita metafora della natura contraddittoria dei sentimenti amorosi).
Alla luce di questa lettura, anche i particolari più controversi assumono una valenza simbolica e perdono la loro connotazione meramente sessuale: masturbazione, sesso, mortificazione ed umiliazione, sottomissione fisica e psicologica completa alle richieste (pardon, agli ordini) dell'altro rappresentano soltanto i mezzi di una ricerca della completezza dell'io individuale nell'armonia della coppia. Dopo avere sperimentato il gioco a due, l'autolesionismo solitario perde ogni valore e proprietà catartica, trovata la formula ideale, condivisa, per lo sfogo delle pulsioni più oscure, la sfida a spingersi oltre può proseguire in piena sicurezza (nell'accezione di incruenza, ma anche di certezza).

Shainberg ha dimostrato di saper proporre brillantemente tutti questi paradossi con spiccato acume, evitando accuratamente il volgare tanto quanto la macchietta farsesca, non indugia sul patetismo dell'infelicità di Lee, anzi la mette quanto prima nella condizione di agire per la concretizzazione del suo desiderio-sessuale/sogno-amoroso e ci lascia godere dei sottili stratagemmi di lei su tale percorso.

Un film innocente a suo modo, con tanto di lieto fine, come nella più provata consuetudine favolistica, da gustarsi senza pregiudizi morali e, soprattutto, senza pretese di realismo.

C'era una volta Cappuccetto Viola...




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