martedì, maggio 29, 2007

Ipse Dixit



"I nuovi film italiani sono deprimenti. Le pellicole che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali, non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni '60 e' 70 e alcuni film degli anni '80, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia".

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domenica, maggio 20, 2007

Etimologie crepuscolari

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mercoledì, maggio 09, 2007

Le chiamate dell'ultima ora...

...e pensare: tanta fretta per niente!...
Ed io?
Io marco quindici!...


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lunedì, maggio 07, 2007

La punta dell'iceberg...

...a quest'ora della vita...
chiedo soltanto
dissolvermi in silenzio!...


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giovedì, maggio 03, 2007

A straight story...

Prima c'è stata quella frase che mi ha attraversato la mente: "La morte è un processo rettilineo." Il genere di dichiarazione poco sfumata che uno si aspetta di piuttosto di trovare in inglese: "Death is a straight on process"... o giù di lì.
Stavo giusto chiedendomi dove l'avessi letta quando il gigante ha fatto irruzione nell'ufficio. Prima ancora che la porta sbattesse alle sue spalle lui era già chino di di me:
- E' lei Malausséne?
Uno scheletro enorme con attorno una forma approssimativa. Ossa simili a clave e l'attaccatura dei capelli appena sopra al naso.
- Benjamin Malausséne, è lei?
Curvo come un arco al di sopra della scrivania, mi teneva imprigionato nella poltrona, strangolando i braccioli con le mani enormi. La preistoria in persona. Ero incollato allo schienale, con la testa sprofondata nelle spalle e incapace di dire se ero io. Mi chiedevo soltanto dove avessi letto quella frase: "La morte è un processo rettilineo", se era in inglese, in francese o in una traduzione...

In quel momento, ha deciso di metterci sullo stesso piano: con un colpo di reni ha sollevato me e la sedia da terra e ci ha posati di fronte a lui, sulla scrivania. Anche così, continuava a dominare la situazione di una buona testa. Da sotto le sopracciglia cespugliose, il suo occhio da cinghiale mi frugava nella coscienza come se avesse perso le chiavi.
- Si diverte, lei, a torturare la gente.
Aveva una voce curiosamente infantile, con un accento di dolore che voleva incutere terrore.
- E' così?
E io, lassù, sul mio trono, incapace di pensare ad altro che a quella fottuta frase. Neanche bella. Un'imitazione. Probabilmente un francese che vuole fare l'amerikano. Dove l'ho letta?
- Non ha mai paura che qualcuno venga a spaccarle la faccia?
Le braccia avevano cominciato a tremargli e comunicavano ai braccioli della poltrona la vibrazione profonda di tutto il suo corpo, sul genere rullio di tamburo prima del terremoto.
E' stato lo squillo del telefono a scatenare il cataclisma. Il telefono ha squillato. Le dolci modulazioni liquide dei telefoni di oggi, i telefoni-memoria, i telefoni-programmi, i telefoni distinti, direttoriali per tutti...
Il telefono è esploso sotto il pugno del gigante.
- E tu taci!
Ho avuto la visione della mia capa, la regina Zabo, lassù , all'altro capo del filo, conficcata nella moquette fino alla cintola dalla mazzata.
Quindi il gigante si è impossessato della mia lampada semi direttoriale e ne ha spezzato il legno esotico sul ginocchio prima di chiedere:
- Non le è mai venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto capitare qui e farle a pezzi l'ufficio?
Era uno di quei pazzi furiosi nei quali il gesto anticipa sempre la parola. Prima che avessi potuto rispondere, la base della lampada aveva ritrovato l'originaria funzione di clava tropicale e si era abbattuta sul computer, il cui schermo si sparpagliò in pallidi frammenti. Un buco nella memoria del mondo. Come se non bastasse, il mio gigante ha martellato la tastiera fino a riempire l'aria di simboli restituiti all'anarchia primordiale delle cose. Dio santo! Se l'avessi lasciato fare saremmo tornati dritti alla preistoria.
Adesso, non badava più a me. Aveva ribaltato la scrivania di Macon, la segretaria, e con un calcio aveva spedito un cassetto pieno di graffette, timbri, smalti per unghie a schiantarsi tra le due finestre. Poi, armato del portacenere a piede che dagli anni cinquanta oscillava graziosamente sulla sua semisfera piombata, attaccò metodocamente la libreria di fronte. Se la prendeva con i libri e la base di piombo faceva danni spaventosi. Quel tizio possedeva l'istinto delle armi primitive. A ogni colpo che sferrava, emetteva un gemito infantile, uno di quegli urli di impotenza che immagino facciano da abituale colonna sonora ai delitti passionali: sfracello mia moglie contro il muro, piagnucolando come un marmocchio.
I libri volavano e cadevano morti.
Non c'erano molti modi per fermare il massacro.
Mi sono alzato. Ho afferrato il vassoio del caffè che Macon aveva portato per rabbonire i piantagrane precedenti (una squadra di sei tipografi che la mia principale aveva messo in mezzo a una strada perchè avevano consegnato con sei giorni di ritardo) e ho scagliato il tutto nella libreria a vetri dove la regina Zabo espone le sue rilegature più belle. Le tazze vuote, la caffettiera mezza piena, il vassoio d'argento e le schegge di vetro fecero un frastuono tale che l'altro si immobilizzò, il portacenere alzato sopra la testa, e si voltò verso di me.
- Cosa sta facendo?
- Faccio come lei, comunico.
E scagliai al di sopra della sua testa il fermacarte di cristallo che Clara mi aveva regalato all'ultimo compleanno. Il fermacarte, una testa di cane che somigliava vagamente a Julius (scusa Clara, scusa Julius), sfondò la faccia del vecchio Talleyrand-Périgord, fondatore occulto delle Edizioni del Taglione in un periodo in cui, proprio come oggi, tutti avevano bisogno di carta per regolare i conti con tutti.
- Ha ragione, dissi, quando non si può cambiare il mondo, bisogna cambiare l'arredamento.


Daniel Pennac, La Prosivendola, 1990


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mercoledì, maggio 02, 2007

La fata e gli scacchi

La porta dell'ex ferramenta che ci funge da appartamento si apre di volata sul Piccolo che urla:
"Ehi! Ho visto una fata!"
Ma questo non basta certo a fermare le attività di casa. Mia sorella Clara, che sta preparando una spalla d'agnello alla Montalbàn, si limita a domandare, con la sua voce vellutata:
"Ah sì, Piccolo? Raccontaci un po'..."
Julius il cane fila a ispezionare la sua ciotola.
"Una vera fata, molto vecchia e molto simpatica!"
Mio fratello Jérémy ne approfitta per tentare un'uscita fuori dal suo ambito:
"Ti ha fatto i compiti?"
"No," dice il Piccolo, "ha trasformato un tizio in fiore!"
Siccome nessuno reagisce, il Piccolo si avvicina a me e Stojilkovicz.
"E' vero, zio Stojil, ho visto una fata, ha trasformato un tizio in fiore."
"Meglio così che il contrario," risponde Stojil senza togliere gli occhi dalla scacchiera.
"Perché?"
"Perché il giorno in cui le fate trasformeranno i fiori in tizi, la campagna diventerà infrequentabile."
La voce di Stojil fa pensare al Big Ben nella nebbia di un film londinese. Così profonda, come se l'aria ti fremesse intorno.
"Scacco matto, Benjamin, matto alla ventura. Ti trovo molto distratto stasera..."


Daniel Pennac, La Fata Carabina, 1987


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Quel pasticciaccio brutto di Belleville

"Ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi."
Se finire in paradiso, all'inferno, nel nulla significa ritrovare Carlo Emilio Gadda, viva il nulla, il paradiso e l'inferno!
- Elisabeth, un po' di caffè per cortesia.
Sì, l'ispettore Ingravallo (ma perchè diavolo lo chiamavano Don Ciccio?) finito per ragioni di servizio sul marciapiede di via Merulana, ha proprio bisogno di un cafferino.
- Credo che a poco a poco stia rinvenendo.
Oh! piano, per favore, rinvenire piano, il più piano possibile, ho appena fatto la conoscenza del Dolore. Carlo Emilio, non voglio lasciarti!
- Cosa dice?
- Dice che non vuole lasciare un certo Carlo Emilio Gadda, e francamente lo capisco.
- Un italiano?
- Il più italiano di tutti, Elisabeth, piano con il caffè, o finirà per soffocarlo.
L'ispettore Ingravallo intingeva la penna nel cappuccino, da ciò il quieto nervosismo della sua lingua...
- Multidialettale, questa lingua, sì, è un vero peccato che non ci sia l'equivalente nella nostra letteratura.
Bisognerà che lo legga ai ragazzi, anche se non ci capiranno niente, bisogna anche che prepari Clara alla maturità, non alla vita, lo fa da sola, alla maturità.
- Adesso credo proprio che stia riprendendo coscienza, mi aiuti che lo mettiamo seduto.
Come mettere seduta una fisarmonica di dolori? Julius tutto intero e io in ventimila pezzi?
- Piano, Elisabeth, mi passi un altro cuscino...
Ma Julius è guarito? JULIUS E' GUARITO!

- Ma chi è questo Julius, signor Malaussène? Gadda lo conosco, ma Julius...

La domanda del commissario Rabdomant, benché fatta con il sorriso sulle labbra, esige una risposta che finirà negli incartamenti.
- E' il mio cane, è guarito.
I divani Récamier non sono certo le barelle più comode.
- Tenga, prenda ancora un po' di caffè. Non ho alcuna nozione di medicina, ma ho una totale fiducia nel caffè di Elisabeth. Elisabeth, lo aiuti, la prego.
Sì, mi aiuti, Elisabeth, sono seduto sulle mie ossa.
- Ecco.
(Ecco, ecco, ecco...)
- Perché mai i divani Récamier sono così duri?
- Perché i conquistatori perdono l'impero se si addormentano sui sofà, signor Malaussène.
- Lo perdono comunque, il sofà del tempo...
- Si direbbe che sta meglio.


Daniel Pennac, Il Paradiso degli Orchi, 1985


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martedì, maggio 01, 2007

Anacronismi secolari

In tempo di precariato galoppante,
sembra quasi uno sbeffeggiamento,
ma... beh...
BUON PRIMO MAGGIO!



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