venerdì, marzo 02, 2012

I figli di mezzo di Dio

«Quello che devi capire è che tuo padre è stato il tuo modello di Dio» dice lui. [...] «Se sei maschio e sei cristiano e vivi in America, tuo padre è il tuo modello di Dio» dice il meccanico. «E se non hai mai conosciuto tuo padre, se tuo padre prende il largo o muore o non è mai a casa, che idea ti fai di Dio?» Qui c'è l'insieme dogmatico di Tyler Durden. Scarabocchiato su pezzetti di carta mentre io dormivo e consegnatomi da battere e fotocopiare sul lavoro. L'ho letto tutto. Probabilmente lo ha letto anche il mio capo. «La fine che fai» dice il meccanico, «è passare la vita a cercare un padre e Dio». «Quello che devi considerare» dice, «è la possibilità che a Dio tu non stia simpatico. Potrebbe essere che Dio ti odi. Non è la cosa peggiore che ti può capitare.» Il modo in cui la vedeva Tyler era che attirare l'attenzione di Dio per essere stati cattivi era meglio di non ottenere attenzione per niente. Forse perché l'odio di Dio è meglio della sua indifferenza. Se tu potessi essere o il peggiore nemico di Dio o niente di niente, che cosa sceglieresti? Noi siamo i figli di mezzo di Dio, secondo Tyler Durden, senza un posto speciale nella storia e senza speciale attenzione. Se non otteniamo l'attenzione di Dio non abbiamo speranza di dannazione o redenzione. Che cos'è peggio, l'inferno o niente? Solo se veniamo presi e puniti possiamo essere salvati. «Brucia il Louvre» dice il meccanico, «e pulisciti il culo con la Gioconda. Almeno così Dio saprà come ci chiamiamo.» Più in basso cadi, più in alto volerai. Più lontano corri, più Dio ti vuole indietro. «Se il figliol prodigo non avesse mai lasciato casa» dice il meccanico, «il vitello grasso sarebbe ancora vivo.»




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mercoledì, febbraio 15, 2012

Il concetto di tensione

VERBALE DELLA RIUNIONE TRA L'ONOREVOLE RAYMOND ZUSATZ, GOVERNATORE DELLO STATO DELL'OHIO; MR JOSEPH LUNGBERG, ASSISTENTE DEL GOVERNATORE; MR NEIL OBSTAT, ASSISTENTE DEL GOVERNATORE; E MR ED ROY YANCEY, VICEPRESIDENTE DELLA PROGETTI DESERTICI INDUSTRIALI INC. DI DALLAS, TEXAS; 21 GIUGNO 1972.

GOVERNATORE Signori, c'è qualcosa che non va.
MR OBSTAT Che significa, Capo?
GOVERNATORE Nello Stato, Neil. C'è qualcosa che non va nel nostro Stato.
MR LUNGBERG Ma Capo, la disoccupazione è bassa, l'inflazione è bassa, le tasse non le tocchiamo da due anni, l'inquinamento è sotto controllo dappertutto a parte Cleveland, che poi di Cleveland chi cavolo se ne frega - sto scherzando, Neil - e poi, Capo, la popolazione ti ama, tutti i sondaggi ti dànno vincente, gli investimenti industriali nello Stato non sono mai stati così alti...
GOVERNATORE Ecco, fermati qui. Il punto è proprio questo.
MR OBSTAT Cosa intendi dire, Capo?
GOVERNATORE Intendo dire che le cose vanno troppo bene. Ho come un sospetto come di fregatura.
MR LUNGBERG Di fregatura?
GOVERNATORE Ragazzi, lo Stato sta perdendo le palle. Sento puzza di spallamento. Finirà per diventare una specie di grosso centro commerciale. Troppo sviluppo. La gente si sta ammosciando. Hanno dimenticato che questo Stato è il frutto storico della lotta dell'uomo contro la natura avversa. Finita la lotta per la sopravvivenza è finita ogni tensione.
MR OBSTAT Su questo non posso darti torto, Capo.
GOVERNATORE Ci serve un po' di tensione.
MR LUNGBERG e MR OBSTAT Cioè?
GOVERNATORE Signori, ci serve un deserto.
MR LUNGBERG e MR OBSTAT Un deserto?
GOVERNATORE Sissignori, un deserto. Un punto di riferimento primordiale per le buone genti dell'Ohio. Un luogo da temere e amare. Un luogo selvaggio. Qualcosa che ci rammenti contro cosa abbiamo lottato e vinto. Un luogo senza centri commerciali. Un Altro per stimolare l'Io dell'Ohio. Cactus, scorpioni e sole implacabile. Desolazione. Un luogo dove la gente possa aggirarsi in solitudine. Per riflettere. Lontano da ogni cosa. Dunque, signori, ci serve un deserto.
MR OBSTAT Idea geniale, Capo.
GOVERNATORE Grazie, Neil. Signori, permettetemi di presentarvi Mr Ed Roy Yancey, della Progetti Desertici Industriali di Dallas, Texas. Sono quelli che hanno realizzato il Kuwait.
MR LUNGBERG Capperi, dicono che nel Kuwait di deserto ce ne sia un sacco.
MR YANCEY Ci puoi scommettere, Joe, e noi siamo in grado di fornirvi dell'ottimo deserto anche qui nell'Ohio.
MR OBSTAT Come siamo a costi?
GOVERNATORE Accettabili.
MR LUNGBERG Dove andrebbe messo?
MR YANCEY Dunque, signori, il Governatore e io ne abbiamo lungamente discusso, ecco, vi prego di dare un'occhiata a questa carta topografica...
MR OBSTAT Questo è l'Ohio, e fin qui ci siamo.
MR YANCEY Il punto che il Governatore e io avremmo in mente si trova nella parte meridionale del vostro grande Stato. Più o meno... qui. Per la precisione da qui a qui. Cento miglia quadrate.
MR OBSTAT Intorno a Caldwell?
MR YANCEY Esatto.
MR LUNGBERG Ma non ci abita un po' troppa gente, da quelle parti?
GOVERNATORE Vorrà dire che verrà spostata. Ragioni di forza maggiore. Il deserto se ne infischia dell'uomo. Rientra nel concetto complessivo.
MR LUNGBERG Non è anche parecchio vicina alla Wayne National Forest?
GOVERNATORE Smetterà di esserlo.
(Mr. Lungberg fischia.)
MR OBSTAT Ehi, mia madre abita vicino a Caldwell.
GOVERNATORE Colpito nel segno, eh Neil? Rientra nel concetto complessivo. Il concetto deve colpire nel segno. Natura avversa significa violenza, Neil. E noi faremo in modo che sullo stomaco inflaccidito di questo Stato ricominci a crescere un po' di pelo. Colpirà nel segno.
MR LUNGBERG Ne sei proprio convinto, vero, Capo?
GOVERNATORE Mai stato così convinto, Joe. È proprio quello che ci vuole per il nostro Stato. Me lo sento.
MR OBSTAT Finirai sui libri di Storia, Capo. Diventerai immortale.
GOVERNATORE Grazie, Neil. Vedi, il fatto è che la trovo una cosa giusta, soprattutto adesso che ne ho lungamente discusso con Mr Yancey. Cento miglia di nulla, cento miglia di bianca sabbia abbacinante. Ovviamente lungo il perimetro ci metteremo un paio di laghetti, perché la gente possa pescare...
MR LUNGBERG Perché proprio bianca, la sabbia? Perché invece non, ipotesi, della sabbia nera?
GOVERNATORE Approfondisci, Joe.
MR LUNGBERG Be', il concetto si basa sul contrasto, sulla diversità, sull'avversità della natura selvaggia, forse addirittura, se non ho capito male, forse addirittura sull'orrido, dico bene?
GOVERNATORE Sì, c'entra pure l'orrido, esatto.
MR LUNGBERG Bene, l'Ohio è uno Stato pieno di bianco: le strade sono bianche, le gente tende complessivamente al bianco, abbiamo un bel sole luminoso... Cento miglia di sabbia nera mi sembrano un fior di contrasto. Riuscite a immaginare niente di più orrido? Tra l'altro il nero assorbirebbe molto meglio il calore. Più caldo c'è, più risalta l'aspetto desolazione.
GOVERNATORE Mi piace. Tu che ne pensi, Ed Roy? La sabbia nera è adatta a cactus e scorpioni?
MR YANCEY Non ci vedo alcun tipo di problema.
MR OBSTAT Che costi ha la sabbia nera?
MR YANCEY Probabilmente è un po' più cara di quella bianca. Devo parlare con i ragazzi del reparto Sabbia. Ma penso di potermi sbilanciare dicendo che la giudico una variazione possibile nell'ambito del progetto complessivo.
GOVERNATORE Perfetto.
MR LUNGBERG Quando cominciamo?
GOVERNATORE Immediatamente, Joe. La natura avversa è di per sé una cosa rapida e violenta.
MR OBSTAT Capo, consentimi di esprimerti la mia emozione. Congratulazioni, da uomo a uomo e da cittadino a Governatore.
GOVERNATORE Grazie, Neil. Adesso però sarà meglio che ti sbrighi a chiamare tua madre.
MR OBSTAT Già, vero.
MR LUNGBERG Capo, non credi che ci vorrebbe un nome?
GOVERNATORE Un nome? Gran bella idea, Joe. Al nome non ci avevo pensato.
MR LUNGBERG Posso suggerirne uno?
GOVERNATORE Spara.
MR LUNGBERG Deserto Incommensurabile dell'Ohio.
GOVERNATORE Deserto Incommensurabile dell'Ohio.
MR LUNGBERG Esatto.
GOVERNATORE È un nome formidabile. Tanto di cappello. Hai sempre delle ottime idee, Joe. Splendido. Comunica vastità, desolazione, grandeur, e poi spiega che è nell'Ohio.
MR LUNGBERG Non sarà un po' presuntuoso?
GOVERNATORE Nient'affatto. Rientra perfettamente nel concetto.
MR OBSTAT Complimenti anche da parte mia, Joe.
MR YANCEY Gran bel nome, Joe.
GOVERNATORE Bene, mi sembra che ci siamo, no? Concetto. Deserto. Colore. Nome. Non ci resta che la tensione.
MR YANCEY E allora diamoci dentro.

David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987.



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lunedì, novembre 07, 2011

Le mani sul passato...

Vai alle mani di Brandy Alexander. Si comincia sempre con le sue mani. Brandy Alexander allunga una mano, una di quelle mani pelose dalle nocche suine, le vene del braccio ammassate e strizzate al gomito da braccialetti di ogni colore. Da sola, Brandy Alexander è un tale mutamento nello standard della bellezza che niente risalta. Nemmeno tu.
«Allora, cara» dice Brandy. «Cosa è successo al tuo viso?»
Gli uccelli.
Scrivo:
uccelli. gli uccelli hanno mangiato il mio viso.
E comincio a ridere.
Brandy non ride. Brandy dice: «Cosa significa?».
E sto ancora ridendo.
ero in macchina sull'autostrada, scrivo.
E sto ancora ridendo.
qualcuno ha sparato una pallottola calibro 30 con un fucile.
il proiettile mi ha strappato l'intera mascella dalla faccia.
Ancora ridendo.
sono venuta all'ospedale, scrivo.
non sono morta.
Ridendo.
non hanno potuto riattaccarmi la mascella perché i gabbiani l'avevano mangiata.
E smetto di ridere.
«Cara, la tua calligrafia è terribile» dice Brandy. «Adesso dimmi il resto.»
E comincio a piangere.
il resto, scrivo, è che devo mangiare cibi per poppanti.
non posso parlare.
non ho una carriera.
non ho una casa.
il mio fidanzato mi ha lasciata.
nessuno mi guarda.
tutti i miei vestiti, la mia migliore amica li ha rovinati.
Sto ancora piangendo.
«Che altro?» dice Brandy. «Raccontami tutto.»
un bambino, scrivo.
un bambinetto al supermercato mi ha chiamato mostro.
Quegli occhi Burning Blueberry mi fissano come mai altri occhi hanno fatto per tutta l'estate. «La tua capacità di percezione è completamente fottuta» dice Brandy. «Tutto quello di cui riesci a parlare è immondizia già accaduta.»
Dice: «Non puoi basare la tua vita sul passato o sul presente».
Dice Brandy: «Devi raccontarmi del tuo futuro».
Brandy Alexander, lei si alza in piedi sulle sue scarpe-trappola reggi-gambe d'oro lamé. La regina suprema estrae un portacipria ingemmato dalla borsetta e lo apre per guardare lo specchietto.
«Quella terapista» dicono quelle labbra Plumbago, «la logopedista può essere così stupida in certe situazioni.»
I grandi muscoli delle braccia ingioiellate di Brandy mi mettono a sedere sulla sedia ancora calda del suo culo, e lei tiene il portacipria in modo che possa guardarci dentro. Invece della cipria, è pieno di capsule bianche. Al posto dello specchietto, c'è una foto in primo piano di Brandy Alexander sorridente e bellissima.
«Sono Vicodin, cara» dice. «È la scuola di medicina Marilyn Monroe, quella dove il giusto numero di droghe cura qualunque malattia.»
Dice: «Prego. A tua disposizione».
Snella ed eterna divinità, la foto di Brandy mi sorride da sopra un mare di analgesici. Ecco come ho incontrato Brandy Alexander. Ecco come ho trovato la forza per non andare avanti con la mia vita precedente. Ecco come ho trovato il coraggio di non raccogliere gli stessi vecchi cocci.
«Ora» dicono quelle labbra Plumbago «mi racconterai la tua storia come lo hai appena fatto. Scrivila tutta quanta. Racconta quella storia, ancora e poi ancora. Raccontami la tua triste storia del cazzo per tutta la notte.» Quella regina Brandy punta verso di me un dito lungo e ossuto.
«Quando capisci» dice Brandy «che quella che racconti è solo una storia. Che non sta più succedendo. Quando realizzi che la storia che stai raccontando sono solo parole, quando puoi sbriciolarla e gettare il tuo passato nel secchio dell'immondizia» dice Brandy, «allora riusciremo a capire chi sarai.» 

Chuck Palahniuk, "Invisible Monsters", 1999.




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domenica, ottobre 30, 2011

Le speranze in saldo

Una volta Clara mi chiese: <<Ma come mai la tua famiglia è emigrata in Canada? Credevo che tutti gli ebrei andassero a New York>>.
 Allora le spiegai che io ero nato in Canada perché a mio nonno, un macellaio rituale, erano mancati venti dollari e rotti. Correva l'anno 1902 quando Moishe e Malka Panofsky, freschi sposi, erano andati a Budapest da Simcha Debrofsky, della Società di Mutuo Soccorso agli Emigranti. <<Vorremmo i documenti per New York>> aveva detto il nonno.
 <<Perché, per il Siam no? E per l'India? Che vi ha fatto l'India? Be', visto che qui abbiamo un telefono, adesso chiamo il presidente a Washington. "Senti, Teddy, non è che a Canal Street siete a corto di emigranti? Ascolta, Teddy, magari ve ne serve qualche altro che non spiccica una parola di inglese. Sìii? Allora ho grandi notizie per te. Ho giusto davanti a me una coppia di shlepers disposti a venire a vivere a New York". Se proprio volete la golden medine, Panofsky, dovete mettermi qui sul tavolo cinquanta dollari americani. In contanti>>.
 <<Ecco, signor Debrofsky, il fatto è che cinquanta dollari non li ho>>.
 <<Davvero? Va bene, allora ascoltate me. Voglio rovinarmi. Per venticinque dollari vi mando tutti e due in Canada>>.

Mordecai Richler, "La versione di Barney", 1997.


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venerdì, agosto 19, 2011

Dei santi e dei bevitori...

Questa è la storia di Danny, degli amici di Danny e della casa di Danny. È la storia di come queste tre cose diventarono una sola.

A Pian della Tortilla, parlare della casa di Danny non significa parlare di una costruzione di legno incrostata di calce e stretta dai lacci d'un vecchio cespo rampicante di rosa castigliana. No, quando uno parla della casa di Danny, parla di uomini che, costituiti in unità, largirono filantropia, e conobbero dolcezza, gioia e, infine, mistico dolore.
Poiché la casa di Danny fu simile alla Tavola Rotonda, e gli amici di Danny non furono dissimili dai Cavalieri di quella.
E questa è la storia di come il gruppo pervenne a formarsi, come fiorì e raggiunse pienezza di organismo vitale. Riguarda, questa storia, le avventure degli amici di Danny, e tratta del buono che essi fecero, e dei loro propositi, i loro pensieri, i loro sforzi. Spiega infine in qual modo il talismano andò perduto e il gruppo si sciolse.
A Monterey, vecchia città marina della California, queste cose sono note e vengono ripetute, magnificate, a volte anche, naturalmente, esagerate. È bene dunque, fissarle sulla carta, perché, in un tempo futuro, i dotti non possano dire come dicono di Re Artù, di Orlando e di Robin Hood: "Danny? Gli amici di Danny? La casa di Danny? Tutte leggende. Danny è un dio della natura, e i suoi amici sono simboli primitivi del vento, del cielo, del sole."
Questa storia è scritta allo scopo di reprimere lo scherno sulle labbra dei dotti biliosi.

John Steinbeck, Pian della Tortilla, 1935.



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venerdì, giugno 03, 2011

La vittima o il carnefice...

Se mi consentite di infrangere la quarta parete, io mi chiamo Hazie Coogan.
Il mio mestiere non è quello di dama di compagnia prezzolata, né sono una governante di professione. Il mio ruolo, ora che sono vecchia, è ancora quello di strofinare le stesse pentole e le stesse padelle che strofinavo da giovane - è un dato di fatto con cui ormai sono scesa a patti - e, benché lei non le abbia mai sfiorate con un dito, le pentole e le padelle in questione sono sempre appartanute alla grandiosa, magnifica attrice cinematografica Katherine Kenton.
È a me che tocca prepararle ogni giorno l'uovo alla cocque. Sono io a incerarle il pavimento di linoleum della cucina. L'infinito compito di spolverare e lucidare il non indifferente numero di ninnoli e gingilli placcati in oro che la signorina Kathie ha ricevuto in premio, anche quello spetta a me. Ma sono forse la domestica della signorina Katherine Kenton? Non più di quanto il macellaio sia servo del tenero agnello.

Chuck Palahniuk, "Senza veli" (or. "Tell-All"), 2010.


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sabato, maggio 14, 2011

La regola aurea

"Stai perdendo tempo," il dottor Daneeka fu costretto a dirgli.
"Non puoi esonerare dal volo uno che è pazzo?"
"Oh, certo. Devo farlo. C'è una regola che prescrive di esonerare dal volo tutti quelli che sono pazzi."
"E allora perché non esoneri me? Io sono pazzo. Prova un po' a chiederlo a Clevinger."
"Clevinger? E dove è Clevinger? Trovami Clevinger e io glielo chiederò."
"E allora chiedi a uno qualsiasi degli altri. Te lo diranno loro che io sono pazzo."
"Loro sono pazzi."
"E allora perché non li esoneri?"
"Perché non mi chiedono di esonerarli?"
"Perché sono pazzi, ecco perché."
"Certo, che sono pazzi," rispose il dottor Daneeka. "Te l'ho appena detto che sono pazzi, no? Ma dimmi un po', come si fa a lasciare decidere a quelli che sono pazzi se tu sei pazzo o no?"
Yossarian lo guardò con calma e provò a fare un approccio da un altro angolo. "È pazzo Orr?"
"Certo che lo è," dise il dottor Daneeka.
"Puoi esonerarlo?"
"Certo che posso. Ma prima lui deve chiedermelo. Questo fa parte della regola."
"E allora perché non te lo chiede?"
"Perché è pazzo," disse il dottor Daneeka. "Deve essere pazzo, per il fatto stesso che continua a volare dopo aver sfiorato la morte così tante volte. Certo, che posso esonerare Orr. Ma prima deve chiedermelo lui."
"Questo è tutto quello che deve fare per essere esonerato?"
"Questo è tutto. Basta che me lo chieda."
"Allora, dopo che lui te l'ha chiesto, puoi esonerarlo?" Yossarian domandò.
"No, dopo non posso esonerarlo."
"Vuoi dire che c'è un comma?"
"Certo che c'è un comma," rispose il dottor Daneeka. "Il Comma 22. 'Tutti quelli che desiderano di essere esonerati dal volo attivo non sono veramente pazzi'."
C'era soltanto un comma e quello era il Comma 22, il quale precisava che la preoccupazione per la propria salvezza di fronte a pericoli che fossero reali e immediati era la reazione normale di una mente razionale. Orr era pazzo e avrebbe potuto essere esonerato dal volo. Tutto quel che doveva fare era di farne domanda; e non appena ne avesse fatto domanda, non sarebbe più stato pazzo e avrebbe dovuto continuare a volare. Orr sarebbe stato pazzo se avesse compiuto altre missioni di volo e sano di mente se non lo avesse fatto, ma se fosse stato sano di mente avrebbe dovuto compiere altre missioni di volo. Se volava era pazzo e non doveva più volare; ma se non voleva volare era sano di mente e doveva volare. Yossarian fu molto impressionato per l'assoluta semplicità di questa clausola del Comma 22 e si lasciò sfuggire un fischio pieno di rispetto.
"È davvero un bel comma, quel Comma 22," osservò.
"È il migliore che ci sia," ammise il dottor Daneeka.
Yossarian riuscì ad afferrarne tutta la rotante ragionevolezza.


Joseph Heller, Comma 22, 1961.


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lunedì, gennaio 25, 2010

La vera natura della città

La città tutta per lui


La popolazione per undici mesi all’anno amava la città che guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panoramico, tutti motivi indiscutibili di continua attrattiva. L’unico abitante cui non si poteva attribuire questo sentimento con certezza era Marcovaldo; ma quel che pensava lui – primo – era difficile saperlo data la sua scarsa comunicativa, e – secondo – contava così poco che comunque era lo stesso.
A un certo punto dell’anno, cominciava il mese d’agosto. Ed ecco: s’assisteva a un cambiamento di sentimenti generale. Alla città non voleva bene più nessuno: gli stessi grattacieli e sottopassaggi pedonali e autoparcheggi fino a ieri tanto amati erano diventati antipatici e irritanti. La popolazione non desiderava altro che andarsene al più presto: e così a furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno. Marcovaldo era l’unico abitante a non lasciare la città.
Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera.
Certo, la mancanza di qualcosa saltava agli occhi: ma non della fila di macchine parcheggiate, o dell’ingorgo ai crocevia, o del flusso di folla sulla porta del grande magazzino, o dell’isolotto di gente ferma in attesa del tram; ciò che mancava per colmare gli spazi vuoti e incurvare le superfici squadrate, era magari un alluvione per lo scoppio delle condutture dell’acqua, o un’invasione di radici degli alberi del viale che spaccassero la pavimentazione. Lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l’affiorare di una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città di vernice e catrame e vetro e intonaco. Ed ecco che il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa; la staccionata d’un cantiere era d’assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull’insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline di tarme, addormentate.
Si sarebbe detto che, appena disertata dagli uomini, la città fosse caduta in balia d’abitatori fino a ieri nascosti, che ora prendevano il sopravvento: la passeggiata di Marcovaldo seguiva per un poco l’itinerario d’una fila di formiche, poi si lasciava sviare dal volo d’uno scarabeo smarrito, poi indugiava accompagnando il sinuoso incedere d’un lombrico. Non erano solo gli animali a invadere il campo: Marcovaldo scopriva che alle edicole dei giornali, sul lato nord, si forma un sottile strato di muffa, che gli alberelli in vaso davanti ai ristoranti si sforzano di spingere le loro foglie fuori dalla cornice d’ombra del marciapiede. Ma esisteva ancora la città? Quell’agglomerato di materie sintetiche che rinserrava le giornate di Marcovaldo, ora si rivelava un mosaico di pietre disparate, ognuna ben distinta dalle altre alla vista e al contatto, per durezza e calore e consistenza.
Così, dimenticando la funzione dei marciapiedi e delle strisce bianche, Marcovaldo percorreva le vie con zigzag da farfalla, quand’ecco che il radiatore d’una “spider” lanciata a cento all’ora gli arrivò a un millimetro da un’anca. Marcovaldo balzò su e ricadde tramortito.
La macchina, con un gran gnaulìo, frenò girando quasi su se stessa. Ne saltò fuori un gruppo di giovanotti scamiciati. “Qui mi prendono a botte, - pensò Marcovaldo, - perché camminavo in mezzo alla via!”
I giovanotti erano armati di strani arnesi. – Finalmente l’abbiamo trovato! Finalmente! – dicevano, circondando Marcovaldo. – Ecco dunque, - disse uno di loro reggendo un bastoncino color d’argento vicino alla bocca, - l’unico abitante rimasto in città il giorno di ferragosto. Mi scusi, signore, vuol dire le sue impressioni ai telespettatori? – e gli cacciò il bastoncino argentato sotto il naso.
Era scoppiato un bagliore accecante, faceva caldo come in un forno, e Marcovaldo stava per svenire. Gli avevano puntato contro riflettori, “telecamere”, microfoni. Balbettò qualcosa: a ogni tre sillabe che lui diceva, sopravveniva quel giovanotto, torcendo il microfono verso di sé: - Ah, dunque, le vuol dire… - e attaccava a parlare per dieci minuti.
Insomma, gli fecero l’intervista.
- E adesso, posso andare?
- Ma sì, certo, la ringraziamo moltissimo… Anzi, se lei non avesse altro da fare… e se avesse voglia di guadagnare qualche biglietto da mille… non le dispiacerebbe restare qui a darci una mano?
Tutta la piazza era sottosopra: furgoni, carri attrezzi, macchine da presa col carrello, accumulatori, impianti di lampade, squadre di uomini in tuta che ciondolavano da una parte all’altra tutti sudati.
- Eccola, è arrivata! È arrivata! – Da una fuoriserie scoperta, scese una stella del cinema.
- Sotto, ragazzi, possiamo cominciare la ripresa della fontana!
Il regista del “teleservizio” Follie di Ferragosto cominciò a dar ordini per riprendere il tuffo della famosa diva nella principale fontana cittadina.
Al manovale Marcovaldo avevano dato da spostare per la piazza un padellone di riflettore dal pesante piedestallo. La gran piazza ora ronzava di macchinari e sfrigolii di lampade, risuonava di colpi di martello sulle improvvisate impalcature metalliche e d’ordini urlati…
Agli occhi di Marcovaldo, accecato e stordito, la città di tutti i giorni aveva ripreso il posto di quell’altra intravista solo per un momento, o forse solamente sognata.

Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, 1963.


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domenica, gennaio 10, 2010

I figli della fame

Una moltitudine di donne, uomini e bambini sta divorando una balena ancora viva. Morti di fame, affondano i denti. I più disperati riescono a strappare lembi scuri di pelle, e ridono con il grasso che gli cola giù dal mento. Un uomo a torso nudo, con un’ascia, ha squarciato il ventre della balena. Con furia scava una nicchia e avanza verso l’interno della bestia. L’intruso è travolto dalla fuoriuscita delle viscere calde e ributtato sulla sabbia. Uno sciame di ragazzi si getta sugli intestini fumanti e si azzuffa per ogni gramo boccone.
Le comari riempiono i grembiuli, gli uomini le camicie. Molti si portano immediatamente alla bocca le interiora conquistate, e mangiano con rivoltante ingordigia.
Una balena si è arenata sulla spiaggia alla foce del fiume pigro che attraversa Genova e subito s’è sparsa la voce.
Verso la testa dell’enorme mammifero, un ragazzo è riuscito, con la lama lunga di un coltello, a tagliare una striscia di carne grande quanto lui. Mette il bottino tra collo e spalla, e corre per cercare di portarlo in salvo. Il pezzo di balena gli sculaccia il sedere a ogni passo.
L’animale muove appena la coda. Osserva stupito, seguendo l’attività di quegli strani pesci che scappano via isterici con le sue membra.
Uno sciancato raggiunge il foro sulla testa della bestia e, curioso, ci guarda dentro. Per dispetto, la balena sputa fuori un fiotto d’acqua di mare mista a sangue. È l’ultimo gioco della sua vita. Si lascia andare con un sospiro e muore adagiandosi mollemente sulla spiaggia.
Tre persone rimangono schiacciate dal cedimento della balena.
Nessuno li soccorre. Ognuno è impegnato a salvare se stesso, o la famiglia, dalla fame. Tre suore con le vesti lorde degli umori della balena esortano, a spintoni, una fila ordinata di orfanelli a far man bassa di ciò che trovano. È manna santa che viene dal cielo. O dal mare. Da lontano, si confondono.
Un cieco sbraita e mena il bastone per l’aria a pochi passi dalla balena cui dà le spalle. Impreca perché non riesce a orientarsi. Neppure la fame lo aiuta.
Un gruppo della consorteria dei manovali fa passamano, al modo dei mattoni, con grumi di carne impilati su un carretto trainato da un cavallo secco come un remo al sole.
La bestia da soma gira il collo cercando qualche pezzo di pelle da addentare. Quando ci arriva, una frustata gli fa capire che non è il caso, e allora si accontenta di leccare il liquido giallastro che cola incessante sulla sabbia accanto agli zoccoli.
La carestia strazia Genova da troppi anni.
Molti sono convinti che tutto cambierà con l’avvento dell’anno nuovo, il 1590.
Dall’ombra dei primi alberi sul mare, Pimain osserva l’apocalittica scena. È un uomo dalla pelle ambrata, nel pieno degli anni vigorosi.
Ha il busto muscoloso e solido. Non così le gambe, che sono magre, corte, e si staccano da un culo piccolo da bertuccia. Sembrano parti di corpo di persone differenti. Vedendolo alla finestra, dalla cintola in su, nessuno potrebbe immaginare che il resto sia tanto risicato.
Capelli neri mossi e basette gli incorniciano il bel volto. Ha sguardo deciso, gesti sicuri, denti bianchi e un sorriso da farabutto.
Vestito in modo modesto, non tradisce appartenenza di classe. Piace alle donne ma non lo sa.
Fa un lavoro diverso da tutti, che a molti puzza di stregoneria.
Pimain abbassa la mano che tendeva la falda del cappello di saggina per ripararsi dall’ultimo sole. Sistema la bisaccia che gli segna la spalla e chiama il cane battendo il palmo sulla coscia. L’animale, di media grandezza, abbaia a rimbrotti sordi e arriva a strusciare il pelo rosso sui polpacci del padrone.
L’uomo e il cane riprendono il sentiero verso le alture.
Già ai primi passi, una moltitudine di miserabili sbarra loro il cammino, e li urta correndo nella direzione opposta.
La fame ha tanti figli, e alla tavola della balena non si aspetta.

Lorenzo Beccati, Il guaritore di maiali - Anno Domini 1589, 2006.


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venerdì, dicembre 18, 2009

Una sorta di fedeltà

ATTENZIONE
Il seguente brano fa uso di linguaggio crudo e di espliciti riferimenti sessuali.
Non leggete se siete contrari a questo tipo di narrativa.



N.600

Uno ha passato il pomeriggio al buffet con indosso solo i boxer, leccando la polverina arancione dalle patatine gusto barbecue. Vicino a lui, un altro pescava nella salsina di cipolla leccandola direttamente dal dorito. Lo stesso dorito fradicio, cucchiaiata dopo cucchiaiata. La gente si inventa un milione di modi diversi per pisciare attorno a quello che considera di sua proprietà.
Quanto al catering, si tratta di due tavolini ripiegabili stracarichi di sacchetti di patatine aperti e bibite in lattina. Quando qualcuno deve andare a fare il suo pezzo, la coordinatrice del cast annuncia il numerino, e quello se ne va a girare la scena con la bocca ancora piena di popcorn al caramello, le dita che bruciano di sale all'aglio, appiccicose di glassa allo sciroppo d'acero.
Di quelli da una sola inquadratura, certi sono venuti giusto per dire che c'erano. Noi veterani, per rivedere un po' di gente e per fare un favore a Cassie. Farla avanzare di un cazzo sul cammino verso il record mondiale. Essere testimoni della storia.
Sul buffet hanno piazzato Tupperware pieni di preservativi accanto ad altri pieni di salatini. Minisnack. Noccioline caramellate. Sul pavimento, involucri di plastica di minisnack e preservativi aperti coi denti. Le stesse mani pescano manciate di M&M's e si infilano nella patta o nell'elastico dei boxer per smanacciarsi l'uccello barzotto. Dita color caramello. Erezioni all'aroma pungente di cipolla.
Alito alle arachidi. Alito di birra. Alito alle patatine barbecue sbuffato in faccia a Cassie.
Tossici con gli spasmi e le braccia rosse a furia di grattarsele. Liceali verginelli che vogliono diventare grandi davanti alla telecamera. Uno in particolare, il numero 72, è qui per farsi deflorare e passare alla storia in un colpo solo.
Tizi magrolini con la maglietta indosso, magliette più vecchie di alcuni dei partecipanti, distribuite secoli fa per il lancio di Sex With the City. Magliette del fan club risalenti all'epoca in cui Cassie fu protagonista di Orizzonti di Foia. Magliette più vecchie del numero 72, serigrafate ancor prima che lui nascesse.
Tizi rumorosi che parlano al cellulare di portafogli azionari e opzioni e intanto si stropicciano il prepuzio. A tutti i partecipanti la coordinatrice ha scritto su un bicipite col pennarello un numero da 1 a 600. Tagli di capelli che sono un monumento al gel e alla pazienza. Abbronzature e nebbioline di colonia.
Lo stanzone pieno di sedie di metallo pieghevoli. Per creare l'atmosfera, giornaletti spiegazzati.
La coordinatrice del cast è una ragazza, Sheila, ha una cartelletta e sta strillando che il numero 16, il numero 31 e il numero 211 devono seguirla su per le scale che portano al set.
Tizi in scarpe da tennis. Scarpe da vela. Perizoma. Mocassini coi calzini fino al polpaccio, e quelle giarrettiere da uomo che si usavano una volta. Infradito da spiaggia ancora incrostati di sabbia, che quando cammini scricchiolano.
C'è quella vecchia barzelletta: per convincere una donna a recitare in un film a luci rosse devi offrirle un milione di dollari. Per convincere un uomo basta chiederglielo. Anche se non è proprio una barzelletta. Non di quelle tipo ah, ah, ah.
Fatta forse eccezione per noi habitué dell'industria, buona parte di questi emeriti sconosciuti ha visto l'annuncio sul retro della rivista porno "Adult Video News". Provino aperto. Un'erezione e un certificato medico a dimostrare che sei pulito: ecco che requisiti chiedevano. E poi, siccome qui nessuno fa il porno coi bambini, dovevi avere diciott'anni compiuti.
Pettorali depilati e inguini cerettati in fila dietro una squadra di softball composta da ragazzi down.
Asiatici, neri e latini. Un tizio in sedia a rotelle. Un esponente di ogni segmento di mercato.
Quel ragazzino, il numero 72, ha in mano un mazzo di rose bianche che cominciano a piegarsi, mezze flosce, coi petali che si sfaldano, già un po' marroncini. Il ragazzino tiene una mano davanti a sé, sul dorso ci sono parole scritte con la biro blu. Guardandole dice: "Io non chiedo niente, ma ti ho sempre amata...".
Altri vanno in giro portando scatolette impacchettate traboccanti di fiocchi e nastrini che penzolano, scatole così piccole da stare in una mano, quasi nascoste tra le dita.
I partecipanti veterani indossano vestaglie di raso, roba da pugili, legate con una fascia, intanto che aspettano la chiamata. Boscaioli professionisti. Metà di loro con Cassie ha perfino avuto una relazione, arrivando a parlare di matrimonio. Diventando gli Alfred Lunt e la Lynn Fontanne, il Desi Arnaz e la Lucille Ball dell'intrattenimento per adulti.
Non c'è uno su questo set che non ami Cassie Wright e non voglia aiutarla a entrare nella storia.
Certi non si sono mai scopati altro che la propria mano, sempre e solo guardando film di Cassie Wright. Per loro è una sorta di fedeltà. Di matrimonio. Questi ragazzi con i regalini in mano, per loro oggi è una specie di luna di miele. Finalmente consumeranno.
Oggi, il giorno della sua ultima performance. L'esatto contrario di un viaggio inaugurale. In cima a quelle scale, a tutti quelli dopo il cinquantesimo, Cassie Wright sembrerà il cratere lasciato da un missile, ma unto di vaselina. Carne e sangue, ma come se dentro di lei qualcosa fosse esploso.
A guardarci non diresti mai che stiamo facendo la storia. Il record che metterà fine a tutti i record.
La coordinatrice arriva a fa: "Signori". Questa Sheila si spinge gli occhiali sul naso e dice: "Quando vi chiamo dovete essere pronti per la telecamera".
Intende in piena erezione. Pronti per il preservativo.
La cosa più simile alla sensazione che si respira oggi è quando ti pulisci muovendo la mano da dietro a davanti. Sei seduto sul cesso. Senza volerlo ti spalmi la merda sul retro delle palle flaccide e raggrinzite. Più cerchi di ripulirti più la pelle si tende e peggiori la situazione. Quel sottile strato di merda si allarga ai peli e alle cosce. Ecco a cosa somiglia un giorno come questo, come ci si sente a mantenere il segreto.
Seicento maschi. Una regina del porno. Un record mondiale destinato a durare per sempre. Un film imprescindibile per ogni collezionista di materiale erotico che sappia il fatto suo.
Non uno di noi era partito con l'idea di fare uno snuff movie.

Chuck Palahniuk, Gang Bang, 2008.


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martedì, novembre 24, 2009

Naufragi urbani

"Maledetto silenzio..." mormorò Maitland tra sé e sé. Sulle autostrade non passavano né macchine né pullman: in lontananza il sole illuminava i balconi degli appartamenti, completamente deserti. Dove diavolo erano finiti tutti? Dio... forse una specie di psicosi collettiva. Nervosamente, Maitland si girò facendo perno sulla stampella e zoppicò sulla terra bruciata, alla ricerca di un qualsiasi abitante in quel paesaggio di solitudine. Forse quella notte era scoppiata la guerra mondiale? O in qualche punto del centro di Londra avevano trovato la fonte di una spaventosa epidemia? Mentre lui dormiva nell'auto bruciacchiata, un immane esodo silenzioso lo aveva lasciato solo nella città morta.

James G. Ballard, L'isola di cemento, 1974.


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mercoledì, ottobre 28, 2009

I labirinti della Storia...

Cambia nome, pupa: chiamati Miles, Dean, Serge e/o Leonard, le consigliò il suo riflesso nella mezzaluce dello specchio da maquillage di quel pomeriggio. Comunque sia, loro la chiameranno paranoia. Loro. O casualmente, e senza l'ausilio dell'LSD o di altri alcaloidi indolici ti sei imbattuta in una ricchezza segreta e una nascosta densità di sogno; in una rete mediante cui un numero X di americani comunica davvero riservando le menzogne, le recite di prammatica, gli aridi tradimenti della miseria spirituale, al sistema ufficiale di distribuzione del governo; forse anche in una vera alternativa alla mancanza di uscita, all'assenza di sorprese nella vita che martoria le menti di tutti gli americani che conosci, e anche la tua, bambola. O è una tua allucinazione.
Oppure si è tramato un complotto contro di te, così costoso ed elaborato da comprendere atti quali la contraffazione di francobolli e libri antichi, la sorveglianza costante dei tuoi movimenti, la semina d'immagini di corni da postiglione per tutta San Francisco, la corruzione di bibliotecari, l'ingaggio di attori professionisti e solo Pierce Inverarity sa cos'altro, tutti pagati grazie al patrimonio con una modalità troppo segreta o troppo complessa perché la tua mente non-giurisperita la identifichi sebbene tu sia la coesecutrice, talmente labirintica da dover significare qualcosa al di là dello scherzo. Oppure te lo stai immaginando, quel complotto, e in tal caso, Oedipa, sei matta, ti manca un venerdì.

Ora che le esaminava, vide che le alternative erano queste. Queste quattro, simmetriche. A lei non ne piaceva neanche una, ma sperava di essere malata di mente: ecco tutto. Quella notte rimase seduta per ore, troppo inebetita anche per bere, a imparare da sola come si respira nel vuoto. Perché, oh, Dio... questo era il vuoto. Non c'era nessuno che potesse aiutarla. Nessuno al mondo. Erano tutti schiavi di qualcosa, svitati, potenziali nemici, morti.

Thomas Pynchon, L'incanto del lotto 49, 1966.


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lunedì, settembre 28, 2009

La marea spezzata.

Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un'epoca - quel tipo di culmine che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni Sessanta era un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga... ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell'angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse...

La Storia è difficile da conoscere, per via di tutte le stronzate che ci aggiungono, ma anche senza essere sicuri di cosa dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che ogni tanto l'energia di un'intera generazione si concentri in un lungo bellissimo lampo, per ragioni che sul momento nessuno capisce - e che mai spiegheranno, retrospettivamente, ciò che è veramente accaduto.
Il mio ricordo principale di quel tempo sembra aggrappato a una o a cinque o forse a quaranta notti - o mattine molto presto - quando mezzo sconvolto lasciavo il Fillmore e, invece di andare a casa, prendevo la grandiosa Lightning 650 e sfrecciavo sopra al Bay Bridge a centosessanta all'ora con indosso dei calzoncini L.L. Bean e un giubbotto Butte da pastore... irrompevo di là del tunnel di Treasure Island sullo spettacolo di luci di Oakland, Berkley e Richmond, non molto sicuro su quale uscita imboccare una volta arrivato di là (sempre spegnendo il motore al casello del pedaggio, troppo fatto per trovare la folle mentre rovistavo in cerca di spiccioli)... ma assolutamente certo che per qualunque strada fossi andato sarei arrivato in un posto dove la gente era ispirata e selvaggia, esattamente come me: nessun dubbio su questo...

C'era follia in ogni direzione, a ogni ora. Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los Altos o La Honda...
Potevi sprizzare scintille dovunque. C'era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo...
E quella, credo, era la nostra ragion d'essere - quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c'era lotta - tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l'abbrivo noi; stavamo cavalcando un'onda altissima e meravigliosa...
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell'alta marea - quel punto in cui l'onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.

Hunter Thompson S. Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas - Una selvaggia cavalcata nel cuore del sogno americano, 1971.


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martedì, settembre 01, 2009

Interferenze nella realtà

La voce amplificata di un uomo rimbombò per la strada dall'interno del supermercato.

- Voglio dare il benvenuto a voi tutti per conto della Advanced Disaster Management, azienda privata di consulenze che elabora e mette in opera evacuazioni simulate. Siamo collegati con ventidue enti statali per portare avanti queste simulazioni avanzate di disastri. La prima, spero, di molte. Più ne proviamo, più al sicuro saremo di fronte alla realtà di un disastro. Del resto è la stessa vita che sembra procedere così, no? Si porta l'ombrello in ufficio per diciassette giorni di seguito, neanche una goccia d'acqua. La prima volta che lo si lascia a casa, via il diluvio record. Senza fallo, vero? È il meccanismo che intendiamo applicare, tra gli altri. Benissimo, al lavoro. Quando dalla sirena arriveranno tre suoni lunghi, migliaia di evacuati scelti lasceranno le loro case e i luoghi di lavoro, saliranno sulle loro vetture e si dirigeranno verso ben attrezzati rifugi d'emergenza. I responsabili del traffico correranno alle loro stazioni computerizzate. Istruzioni aggiornate verranno diffuse attraverso il sistema di trasmissione della SIMUVAC. Persone incaricate di raccogliere i campioni d'aria si schiereranno lungo la fascia di esposizione alla nube. Analizzatori dei prodotti caseari sottoporranno a test latte e alimenti scelti a caso per tre giorni nella fascia di ingestione. Oggi non stiamo sperimentando una fuoriuscita specifica. Potrebbe essere una fuoriuscita o un inquinamento qualsiasi. Vapore radioattivo, nuvolette chimiche, una foschia di origine ignota. L'importante è il movimento. Portare via questa gente dalla fascia. Durante la notte della nube grassa abbiamo imparato molte cose. Ma non c'è niente di meglio di una simulazione programmata. Se la realtà vi interferisce sotto forma di incidente d'auto o di una vittima che cade dalla barella, è importante ricordare che non siamo qui per aggiustare ossa rotte o spegnere incendi veri. Siamo qui per simulare. Le interruzioni possono costare alcune vite in un'autentica situazione di emergenza. Se impariamo a evitare le interruzioni adesso, saremo capaci di evitarle più tardi, quando sarà importante. Benissimo. Quando la sirena emetterà due lamenti lugubri, i responsabili di via faranno ricerche casa per casa, per trovare chi sia stato inavvertitamente lasciato indietro. Uccellini, pesciolini rossi, anziani, handicappati, invalidi, gente rimasta intrappolata e via dicendo. Attenzione, vittime: cinque minuti. Tutto il personale di salvataggio ricordi che non stiamo simulando un'esplosione. Quindi le nostre vittime sono sconvolte ma non presentano traumi. Tutte le loro amorose attenzioni le tengano da conto per la palla di fuoco di origine nucleare che avremo in giugno. Mancano quattro minuti e il conteggio procede. Zoppicate, vittime. E ricordatevi che non siete qui per strillare o discutere. Non abbiamo bisogno di vittime che facciano spettacolo. Non siamo a New York o a L.A. Basteranno dei leggeri gemiti.

Don DeLillo, Rumore Bianco, 1985.


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mercoledì, luglio 22, 2009

Il freddo destino dei grandi...

Era duro, l'inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che mi andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze nel mondo che cercavano di distruggermi.
Dominic Molise, mi dissi, aspetta un attimo. Sta andando tutto secondo i tuoi piani? Esamina attentamente la tua condizione, considera obiettivamente il tuo stato. Che succede, Dom?

Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di momento in momento. Avrei compiuto diciotto anni di lì a sei mesi, e avrei preso la maturità. Ero alto un metro e sessantadue, e negli ultimi tre anni non ero certo cresciuto di un solo centimetro. Avevo le gambe arcuate, i piedi a papera, e le orecchie a sventola come quelle di Pinocchio. I miei denti erano storti e la faccia lentigginosa come un uovo di uccello.
Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l'esame.

Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. Non c'entravo per niente, salvo che ora sono qui e ti sto facendo domande oneste, ti chiedo i motivi, per cui dimmi, mandami un segno: è questo il premio per cercare di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? Ho mai messo in dubbio la Transustanziazione, la Trinità, o la Resurrezione? Quante messe ho perso la domenica e le feste comandate? Le puoi contare sulle dita, Signore.
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano? Hai perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?

Vivevamo a Arapahoe Street, ai piedi della prima collina che poi cresceva a formare il lato est delle Montagne Rocciose. Si elevavano come grattacieli frastagliati, e fissavano la nostra città, una foschia azzurra e verde durante l'estate, bianca come lo zucchero in inverno, con guglie avvolte dalle nuvole. Ogni inverno c'era qualcuno che si perdeva lassù, rimanendo intrappolato in un burrone o seppellito da una slavina. In primavera la neve disciolta trasformava Roper Creek in un fiume selvaggio che portava via steccati e ponti, e che allagava le strade, ammassando fango su Pearl Street e inondando la cantina del tribunale. Un paese freddo, dal brutto carattere, il cui terreno era una lastra di ghiaccio per tutto aprile, con la neve la domenica di Pasqua, e a volte un'improvvisa tormenta a maggio: un paese pessimo per un giocatore di baseball, specialmente per un lanciatore che non toccava palla da ottobre. Ma il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze.
Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, il Braccio mollemente dondolante, come un serpente - il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga.
Che nevicasse, allora! E che l'inverno fosse lungo e freddo, e la primavera restasse un sogno, perché quella dopotutto non era la fine di Dominic Molise, ma solo il suo inizio, e il sole estivo l'avrebbe trovato mentre faceva un lavoro divino con il suo sapiente braccio sinistro.
Arapahoe Street spazzata dalla neve era un posto preciso, un punto di riferimento dove una volta aveva camminato in notti di disperazione, il suo luogo di nascita, questo sarebbe dovuto essere iscritto nella Hall of Fame. Una targa, se non vi dispiace, una targa di bronzo murata su un monumento all'angolo fra la Nona e Arapahoe Street: Quartiere d'Infanzia di Dominic Molise, il Mancino più Grande del Mondo.

John Fante, Un anno terribile, 1985.


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venerdì, giugno 19, 2009

Il vaccino per la realtà

Bodie Carlyle: Non lo chieda a me. Io non ho mai capito che cosa ci trovasse. Gli altri bambini sniffavano benzina o colla per modellini. Rant invece passava l'estate steso sulla sabbia a pancia in giù vicino a un cespuglio di artemisia. La gente, da queste parti, fa di tutto per evadere dalla realtà, mentre Rant cercava di prepararsi ad affrontarla.
Quelle buche schifose, quei sassi che sollevava di una fessura, quei posti in cui non riusciva a vedere erano il futuro che ci faceva paura. Ogni volta che infilava le mani nel buio e non moriva, Rant aveva un po' meno paura. Si tirava su i pantaloni e alzava un piede. Si sedeva lì, in mezzo al deserto, e infilava il piede nudo nella tana di un coyote, lentamente, come quando ti bagni l'alluce nell'acqua per vedere se è troppo calda o troppo fredda. Io lo guardavo. Rant appoggiava le mani sulla sabbia, chiudeva forte gli occhi, faceva un bel respiro e tratteneva il fiato.
In fondo alla buca poteva esserci una puzzola, un procione, un coyote femmina coi cuccioli o un serpente a sonagli. Prima la sensazione morbida del pelo, o liscia delle squame, il tiepido o il freddo, e poi -zac!- la stretta dei denti, e la gamba di Rant cominciava a tremare. E lui mica la tirava via, come farebbe chiunque, facendo ancora più danno perché i denti stringono forte. No, Rant aspettava che la bocca allentasse la presa. E magari stringesse una seconda volta. Affondasse i denti per bene. E poi mollasse. Annoiata. Poi un piccolo sbuffo di fiato caldo sulle dita. La sensazione di una lingua umida che sottoterra gli leccava il sangue.
A quel punto, Rant tirava fuori il piede dalla buca, con la pelle strappata e maciullata, ma ripulita dalla terra con la lingua. Quella pelle tutta pulita che sanguinava -plic, plic, plic- che gocciolava sangue puro. Con due occhi che vedevi soltanto la pupilla nera enorme, dilatata. Rant si sfilava l'altro calzino, tirava su l'altra gamba dei pantaloni e infilava un altro pezzo nudo di sé nel buio, per vedere cosa succedeva.
Per tutta l'estate le dita dei piedi e delle mani di Rant avevano la pelle strappata, macchiata di sangue ai bordi. Morso dopo morso, goccia di veleno dopo goccia di veleno, Rant si stava preparando per qualcosa di più grande. Si vaccinava contro la paura. Qualunque fosse stato il suo futuro, un lavoro di merda, o il matrimonio, o il servizio militare, sarebbe stato sempre meglio di un coyote che ti mastica un piede.

Chuck Palahniuk, Rabbia. Una biografia orale di Buster Casey, 2007.


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venerdì, maggio 15, 2009

Il baratro che non vedi

Si trova da qualche parte nel sottosuolo, molto in fondo: forse in un tunnel, o nelle fogne. La luce è ridotta a qualche debole sprazzo, che definisce il buio, piuttosto che disperderlo. Non è solo. Ci sono altre persone che gli camminano accanto, sebbene lui non riesca a vedere le loro facce. Stanno correndo, ora, attravero la parte interna della fognatura, inzaccherandosi di melma e di sporcizia. Goccioline d'acqua cadono lentamente, limpide come cristallo nell'oscurità.
Svolta un angolo, e la Bestia è là che lo aspetta.
E' enorme. Riempie completamente lo spazio della fognatura: la testa massiccia abbassata, corpo setoloso e fiato fumanti nell'aria gelida. Una sorta di cinghiale, pensa all'inizio, poi si rende conto che è una sciocchezza: non esistono cinghiali così grandi. Ha le dimensioni di un toro, di una tigre, di un automobile.
Lo fissa, indugia per un centinaio di anni, mentre lui solleva la lancia. Lui osserva la propria mano che regge l'arma, e nota che non è la sua mano: il braccio è coperto di peli scuri, le unghie quasi artigli.
E poi la Bestia carica. Lui scaglia la lancia, ma è già troppo tardi, sente che la Bestia gli ha tagliato il fianco con le zanne affilate come rasoi, sente che la sua vita si sta spegnendo nel fango: e si accorge di essere caduto a faccia in giù nell'acqua, che si è tinta di rosso acceso e crea densi mulinelli di sangue che lo soffocano. Tenta di gridare, tenta di svegliarsi, ma riesce soltanto a respirare fango e sangue e acqua, e a provare un grande dolore...

"Brutto sogno?" chiese la ragazza.
Richard si mise a sedere sul sofà, respirando a fatica. Le tende erano ancora tirate, le luci e la televisione ancora accese, ma sapeva dalla pallida luce che filtrava attraverso gli interstizi che era mattina. Cercò a tentoni il telecomando, che chissà come gli si era incuneato tra le reni durante la notte, e spense il televisore.
"Sì" rispose. "Più o meno."
Strofinò via le tracce di sonno che gli incrostavano gli occhi e fece l'inventario di sé stesso, notando con piacere di essersi tolto le scarpe e la giacca prima di addormentarsi. Lo sparato della camicia era coperto di sangue secco ed era sporco. La ragazza senza casa non diceva nulla. Aveva un aspetto disastroso: pallida e minuta, sotto al sudiciume e al sangue ormai asciutto e di colore marrone. Era vestita con una quantità di abiti uno sopra l'altro: vestiti curiosi, velluti impolverati, pizzi inzaccherati, strappi e buchi attraverso i quali si potevano intravedere ulteriori strati e stili.
Richard pensò che sembrava uscire da un'incursione di mezzanotte nella sezione riservata alla storia della moda nel Victoria and Albert Museum, e avesse ancora indosso tutto ciò che aveva arraffato. I suoi capelli corti erano sudici, ma pareva che sotto lo sporco potesse esserci un colore rossiccio scuro.

Se c'era una cosa che Richard proprio non sopportava erano le persone che affermavano cose ovvie, quelle che gli venivano a riferire situazioni di cui non poteva non accorgersi da solo neppure volendo: "Piove", oppure "Ti si è appena rotto il fondo del sacchetto della spesa e tutto il tuo cibo è finito nella pozzanghera" o anche "Ooh! Scommetto che fa male!".
"Sei sveglia, allora" disse Richard, odiandosi.
"Che baronia è questa?" chiese la ragazza. "Che feudo?"
"Hmm. Come, scusa?"
Si guardò attorno con aria sospettosa. "Dove sono?"
"Appartamento 4, Newton Mansions, Little Comden Street..." Si fermò. Lei aveva aperto tutte le tende, sbattendo le palpebre alla fredda luce mattutina. La ragazza contemplò meravigliata la vista alquanto ordinaria che si godeva dalla finestra di Richard, scrutando a occhi spalancati le auto e gli autobus, e il piccolo insieme disordinato di negozi - un giornalaio, un panettiere, una farmacia e una rivendita di alcolici - sotto di loro.
"Sono a Londra Sopra" disse con voce flebile.
"Sì, sei a Londra" ribadì Richard. Sopra a cosa?, si chiese. "Penso che probabilmente ieri sera eri in stato di shock o qualcosa di simile. Il taglio sul braccio era molto brutto."
Attese che dicesse una parola, che spiegasse. Lei gli lanciò un'occhiata, poi abbassò di nuovo lo sguardo verso gli autobus e i negozi. Richard continuò: "Io, be', ti ho trovata sul marciapiede. C'era un sacco di sangue."
"Non preoccuparti" gli disse con aria seria. "La maggior parte del sangue apparteneva a qualcun altro."
Lasciò ricadere la tenda. Poi cominciò a svolgere dal braccio la sciarpa, macchiata, incrostata di sangue. Esaminò il taglio e fece una smorfia. "Bisogna farci qualcosa" disse. "Vuoi darmi una mano?"
Richard cominciava a sentirsi in acque un po' troppo profonde per le sue possibilità. "In realtà non me ne intendo molto di pronto soccorso" disse.
"D'accordo," fece lei "se sei davvero tanto schizzinoso, vuol dire che ti limiterai a tenere le bende e ad annodare le estremità che non riesco a raggiungere. Ce le hai le bende, vero?"

Neil Gaiman, Nessun Dove, 2000.


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giovedì, aprile 23, 2009

Gli spazi vuoti

Il modo in cui vivo, è dura anche riuscire a impanare come si deve una cotoletta di vitello.

Certe sere è diverso, può essere pesce o pollo. Ma state pur certi che nel preciso istante in cui ho una mano sporca d'uovo sbattuto e con l'altra stringo la carne qualcuno chiama e mi incasina le cose.
Questo accade praticamente tutte le sere della mia vita, in questo periodo.
Stasera una ragazza mi chiama da dentro un club con la musica a palla. Le sole parole che riesco a capire sono "didietro". Lei dice, "rotto in culo".
Dice qualcosa che suona come "pezzo di pane" o "figlio di un cane". Sta di fatto che è impossibile riempire gli spazi vuoti e che io mi ritrovo solo soletto in cucina urlando per cercare di farmi sentire sopra il frastuono della musica dance, da qualche parte. Lei sembra giovane e smaliziata, così le chiedo se ha fiducia in me. E' stanca di soffrire? Le chiedo, Se c'è un'unica via per porre fine al suo dolore, la seguirà?
Il mio pesciolino rosso sguazza tutto eccitato dentro la palla di vetro appoggiata sopra il frigo, così mi allungo e lascio cadere qualche goccia di Valium nell'acqua.
Sto urlando a questa ragazza, Ne ha avuto abbastanza?
Sto urlando, Non ho intenzione di stare qui ad ascoltarla lamentarsi.
Stare qui e cercare di rimettere in sesto la sua vita è solo un'enorme perdita di tempo. La gente non vuole rimettere in sesto la propria vita. Nessuno vuole che i suoi problemi vengano risolti. I suoi drammi. Le sue distrazioni. Le sue storie risolte. I suoi casini ripuliti. Perché, che cosa mai le rimarrebbe? Solamente il grande spaventoso inconoscibile.
La maggior parte della gente che mi chiama sa già cosa vuole. Alcuni vogliono morire e cercano solamente il mio permesso. Molti altri vogliono morire e hanno bisogno solamente di un piccolo incoraggiamento. Una piccola spinta. Spesso a chi è risoluto verso il suicidio non è rimasto molto senso dell'umorismo.
Una parola sbagliata, e li troverai negli avvisi mortuari la prossima settimana. La maggior parte delle telefonate che ricevo, sto ad ascoltarle solamente a metà. La maggior parte della gente, decido se deve vivere o se deve morire solamente dal tono della voce.
Non stiamo andando da nessuna parte con la tipa del dance club, così le dico, Ucciditi.
Lei dice, "Cosa?".
Prova con barbiturici e alcol, e infila la testa in una busta di plastica pulita.
Lei dice, "Cosa?".
Non si può impanare una cotoletta di vitello e pretendere di fare un buon lavoro usando una sola mano, così le dico, Ora o mai più. Premi il grilletto o lascia stare. Io le sono vicino, in questo momento. Non morirà da sola, ma non ho tutta la notte a sua disposizione.

Chuck Palahniuk, Survivor, 1999.


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mercoledì, aprile 08, 2009

Una nuova fede

Qualunque luce abbia usato il fotografo era una luce fredda, e proiettava brutte ombre contro il muro di cemento alle loro spalle. Un muro imbiancato qualsiasi nella cantina di chissà chi. La scimmia aveva l'aria stanca e una serie di chiazze di pelle spelate dalla rogna. L'uomo era in pessima forma, pallido e con i rotolini di ciccia intorno alla vita, eppure se ne stava lì, rilassato e piegato a novanta, con le mani puntate sulle ginocchia e la grossa pancia a penzoloni, la faccia rivolta all'indietro verso l'obbiettivo e un sorriso a trentasei denti.
"Beato" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.

All'inizio il lato della pornografia che più aveva colpito il ragazzino non era stato quello sessuale. Non le foto di gente bella che scopava, con la testa buttata all'indietro e in faccia quelle smorfie da orgasmo simulato. All'inizio no. Le foto su Internet le aveva trovate quando ancora il sesso nemmeno sapeva cos'era. Internet c'era in tutte le biblioteche. In tutte le scuole.
Come quando ci si sposta da una città all'altra e si trova sempre una chiesa cattolica, la stessa messa celebrata dappertutto: in qualsiasi famiglia adottiva lo spedissero, il ragazzino trovava sempre Internet. La verità era che se sulla croce Cristo fosse scoppiato a ridere, o avesse sputato in testa ai romani, se avesse fatto una cosa qualsiasi oltre a soffrire, al ragazzino la chiesa sarebbe piaciuta molto di più.
In realtà, nel suo sito preferito di eccitante non c'era un granché, almeno non per lui. Quando ti collegavi non trovavi altro che una dozzina di foto di questo omino tracagnotto vestito da Tarzan, con un buffo orangutan addestrato a infilargli quelle che sembravano caldarroste su per il culo.
L'uomo ha il perizoma leopardato spostato da una parte, l'elastico affondato nella vita grassoccia.
La scimmia è accovacciata accanto a lui, pronta con la castagna successiva.
Non c'è niente di eccitante. Eppure il contatore diceva che quel sito era stato visitato da più di mezzo milione di persone.
"Pellegrinaggio" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.
La scimmia e le castagne non erano roba che il ragazzino potesse capire, ma in un certo senso lui quel tizio lo ammirava. Il ragazzino era stupido, però capiva che quella era una faccenda più grande di lui. La verità è che la maggior parte delle persone da una scimmia non si farebbero nemmeno vedere nude.
Avrebbero paura di scoprire che in foto il loro buco del culo risulta arrossato, magari gonfio. Quasi nessuno avrebbe il coraggio di mettersi culo all'aria davanti a una scimmia, figuriamoci davanti a una scimmia e a una macchina fotografica e alle luci, e anche se fosse, prima correrebbe a farsi un miliardo di addominali e una lampada e un nuovo taglio di capelli. Dopodiché passerebbe ore col culo per aria davanti uno specchio, cercando di capire qual è il profilo migliore.
E poi, anche se sono castagne, bisogna comunque stare un minimo rilassati.
Il solo pensiero dei provini per scegliere la scimmia dava i brividi, l'eventualità di essere scartato da una scimmia dopo l'altra. Certo, pagando abbastanza, di gente disposta a infilarti della roba dentro o a fotografarti ne trovi. Ma una scimmia. Una scimmia mica finge.
L'unica speranza sarebbe quella di beccare lo stesso orangutan delle foto, che chiaramente non andava tanto per il sottile. O forse era solo ben addestrato.
Il punto è che tutto ciò non avrebbe senso se uno fosse bellissimo e sexy.
Il punto è: in un mondo dove bisogna essere belli a tutti i costi, quel tizio non lo era. La scimmia non lo era. Quello che stavano facendo non lo era.
Il punto è che non era stato l'elemento sessuale, o quello pornografico, a colpire lo stupido ragazzino. Era stata la sicurezza di sé. Il coraggio. L'assoluta mancanza di pudore. La disinvoltura e la genuina schiettezza. La faccia di starsene lì così e dire al mondo intero: Ebbene sì, ecco come ho deciso di impegnare uno dei miei pomeriggi liberi. Facendomi fotografare con una scimmia che mi infila delle castagne su per il culo.
E chi se ne frega di come vengo in foto. O di quello che pensate voi.
Fatevene una ragione.
Aggredendo se stesso, quel tizio aveva aggredito il mondo intero.
E anche se per lui l'esperienza non era stata proprio piacevolissima, la capacità di sorridere, di dissimulare, lo rendevano ancor più ammirevole.
Proprio come nei film porno, dove c'è sempre un mucchio di gente che se ne sta fuori campo a fare la maglia, a mangiare panini, a guardare l'orologio, mentre a pochi metri di distanza ci sono persone nude che fanno sesso...
Per lo stupido ragazzino fu un'illuminazione. Essere così disinvolti e così sicuri di sé sarebbe stato il Nirvana.
"Libertà" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.
Era quello il genere di orgoglio e di sicurezza che il ragazzino avrebbe voluto possedere. Un giorno.
Se in quelle foto ci fosse stato lui, avrebbe potuto riguardarsele tutti i giorni e pensare: se sono riuscito a fare questo, allora posso fare tutto. Qualsiasi cosa ti fosse capitato, se eri riuscito a sorridere, a ridere, mentre una scimmia ti scopava a colpi di castagne in una cantina umida e qualcun altro scattava foto, be', qualsiasi altra situazione sarebbe stata una passeggiata.
Persino l'inferno.

Chuck Palahniuk, Soffocare, 2002.


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domenica, marzo 15, 2009

La parte mancante

Nel pomeriggio cominciò a piovere e tutto divenne grigio piombo. Lui andò in anticamera, nella sua casa, e si mise il distintivo con la salamandra arancione in mezzo. Rimase poi a guardare la bocca dell'impianto di aerazione, per molto tempo. Sua moglie, nella saletta della TV, interruppe la lettura del copione per alzare gli occhi su di lui:
"Ehi!" disse. "Perché tanto assorto?"
"Stavo pensando a una cosa, infatti" rispose Montag.
"Volevo parlarti." Una pausa. "Hai inghiottito tutte le compresse del sonnifero questa notte."
"Oh, impossibile che io abbia fatto una cosa simile" disse lei, stupita.
"Eppure il flacone era vuoto."
"Ma è impossibile, ti dico. Perché avrei dvuto fare una cosa simile?"
"Forse, hai preso due compresse, poi, dimenticandolo, ne hai prese altre due, e, dimentica ancora, altre due, annebbiandoti talmente che hai continuato a prenderne fino ad averne trenta o quaranta in corpo."
"Diamine" osservò la donna, "a quale scopo dovrei ridurmi a fare una cosa tanto sciocca?"
"E' quello che mi domando anch'io" disse lui.
Era evidente che la donna aspettava solo di vederlo andar via.
"Non ho fatto nulla di simile" disse fermamente. "E non lo farei nemmeno in un miliardo di anni."
"Tanto meglio, se lo dici tu."
"Questo è quanto la regale signora ebbe a dire" disse lei tornando al suo copione.
"Che cosa c'è di nuovo oggi alla TV?" domandò lui con aria stanca.
Questa volta lei non alzò lo sguardo dalla lettura.
"Questa è una commedia che trasmetteranno sul canale parete-parete entro dieci minuti. Mi hanno spedito per posta la parte stamattina. Scrivono un lavoro con una parte mancante. E' una nuova idea della TV. Quella che rimane in casa, cioè io, è la parte che manca. Quando viene il momento delle battute mancanti, tutti si girano verso di me a guardarmi dalle tre pareti e io dico le battute. Qui, per esempio, l'uomo dice: Che te ne pare, di tutta questa idea, Helen?. E intanto guarda me, seduta qui, al centro del palcoscenico, vedi? E io rispondo, rispondo..." Tacque, seguendo col dito le righe del copione.
Oh, a me pare che sia un'idea stupenda! Poi la commedia va avanti normalmente fino a quando l'uomo dice: Sei d'accordo anche tu, Helen? e io rispondo: D'accordissimo!. Non è una cosa divertente, eh, Guy?"
Montag era sempre ritto in anticamera, e la fissava.
"Te lo dico io che è molto divertente" disse lei.
"Ma la commedia di che cosa tratta?"
"Te l'ho detto! Ci sono questi personaggi, che si chiamano Bob, Ruth ed Helen."
"Oh."
"Una cosa davvero divertente. E lo sarà ancora di più quando potremo fare anche l'impianto della quarta parete. Quanto tempo ancora credi che dovremo aspettare prima di poter far portare via quella parete e installare una quarta parete TV? In fondo, la spesa non supera i duemila dollari."
"Duemila dollari rappresentano quattro mesi della mia paga."
"Non supera i duemila dollari" ribattè lei. "E penso che qualche volta potresti anche ricordarti di me. Se avessimo anche la quarta parete, si potrebbe dire che questa camera non è più nostra, ma di ogni sorta di gente esotica. In fondo, facendo qualche piccolo sacrificio..."
"Stiamo già facendo parecchi piccoli sacrifici per pagare la terza parete TV. L'abbiamo fatta montare solo due mesi fa, non ricordi?"
"Davvero? Sono passati solo due mesi?" Rimase a fissarlo attentamente, seduta nel salotto della TV, per un pezzo. "Be', arrivederci, caro."
"Arrivederci" disse Montag. Si fermò e si volse.
"E' almeno a lieto fine, la commedia?"
Le venne vicino, lesse l'ultima pagina del copione, annuì, ripiegò il fascicolo e glielo rese. Poi uscì di casa, e si allontanò sotto la pioggia.

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953.


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