domenica, gennaio 10, 2010

I figli della fame

Una moltitudine di donne, uomini e bambini sta divorando una balena ancora viva. Morti di fame, affondano i denti. I più disperati riescono a strappare lembi scuri di pelle, e ridono con il grasso che gli cola giù dal mento. Un uomo a torso nudo, con un’ascia, ha squarciato il ventre della balena. Con furia scava una nicchia e avanza verso l’interno della bestia. L’intruso è travolto dalla fuoriuscita delle viscere calde e ributtato sulla sabbia. Uno sciame di ragazzi si getta sugli intestini fumanti e si azzuffa per ogni gramo boccone.
Le comari riempiono i grembiuli, gli uomini le camicie. Molti si portano immediatamente alla bocca le interiora conquistate, e mangiano con rivoltante ingordigia.
Una balena si è arenata sulla spiaggia alla foce del fiume pigro che attraversa Genova e subito s’è sparsa la voce.
Verso la testa dell’enorme mammifero, un ragazzo è riuscito, con la lama lunga di un coltello, a tagliare una striscia di carne grande quanto lui. Mette il bottino tra collo e spalla, e corre per cercare di portarlo in salvo. Il pezzo di balena gli sculaccia il sedere a ogni passo.
L’animale muove appena la coda. Osserva stupito, seguendo l’attività di quegli strani pesci che scappano via isterici con le sue membra.
Uno sciancato raggiunge il foro sulla testa della bestia e, curioso, ci guarda dentro. Per dispetto, la balena sputa fuori un fiotto d’acqua di mare mista a sangue. È l’ultimo gioco della sua vita. Si lascia andare con un sospiro e muore adagiandosi mollemente sulla spiaggia.
Tre persone rimangono schiacciate dal cedimento della balena.
Nessuno li soccorre. Ognuno è impegnato a salvare se stesso, o la famiglia, dalla fame. Tre suore con le vesti lorde degli umori della balena esortano, a spintoni, una fila ordinata di orfanelli a far man bassa di ciò che trovano. È manna santa che viene dal cielo. O dal mare. Da lontano, si confondono.
Un cieco sbraita e mena il bastone per l’aria a pochi passi dalla balena cui dà le spalle. Impreca perché non riesce a orientarsi. Neppure la fame lo aiuta.
Un gruppo della consorteria dei manovali fa passamano, al modo dei mattoni, con grumi di carne impilati su un carretto trainato da un cavallo secco come un remo al sole.
La bestia da soma gira il collo cercando qualche pezzo di pelle da addentare. Quando ci arriva, una frustata gli fa capire che non è il caso, e allora si accontenta di leccare il liquido giallastro che cola incessante sulla sabbia accanto agli zoccoli.
La carestia strazia Genova da troppi anni.
Molti sono convinti che tutto cambierà con l’avvento dell’anno nuovo, il 1590.
Dall’ombra dei primi alberi sul mare, Pimain osserva l’apocalittica scena. È un uomo dalla pelle ambrata, nel pieno degli anni vigorosi.
Ha il busto muscoloso e solido. Non così le gambe, che sono magre, corte, e si staccano da un culo piccolo da bertuccia. Sembrano parti di corpo di persone differenti. Vedendolo alla finestra, dalla cintola in su, nessuno potrebbe immaginare che il resto sia tanto risicato.
Capelli neri mossi e basette gli incorniciano il bel volto. Ha sguardo deciso, gesti sicuri, denti bianchi e un sorriso da farabutto.
Vestito in modo modesto, non tradisce appartenenza di classe. Piace alle donne ma non lo sa.
Fa un lavoro diverso da tutti, che a molti puzza di stregoneria.
Pimain abbassa la mano che tendeva la falda del cappello di saggina per ripararsi dall’ultimo sole. Sistema la bisaccia che gli segna la spalla e chiama il cane battendo il palmo sulla coscia. L’animale, di media grandezza, abbaia a rimbrotti sordi e arriva a strusciare il pelo rosso sui polpacci del padrone.
L’uomo e il cane riprendono il sentiero verso le alture.
Già ai primi passi, una moltitudine di miserabili sbarra loro il cammino, e li urta correndo nella direzione opposta.
La fame ha tanti figli, e alla tavola della balena non si aspetta.

Lorenzo Beccati, Il guaritore di maiali - Anno Domini 1589, 2006.


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