giovedì, maggio 03, 2007

A straight story...

Prima c'è stata quella frase che mi ha attraversato la mente: "La morte è un processo rettilineo." Il genere di dichiarazione poco sfumata che uno si aspetta di piuttosto di trovare in inglese: "Death is a straight on process"... o giù di lì.
Stavo giusto chiedendomi dove l'avessi letta quando il gigante ha fatto irruzione nell'ufficio. Prima ancora che la porta sbattesse alle sue spalle lui era già chino di di me:
- E' lei Malausséne?
Uno scheletro enorme con attorno una forma approssimativa. Ossa simili a clave e l'attaccatura dei capelli appena sopra al naso.
- Benjamin Malausséne, è lei?
Curvo come un arco al di sopra della scrivania, mi teneva imprigionato nella poltrona, strangolando i braccioli con le mani enormi. La preistoria in persona. Ero incollato allo schienale, con la testa sprofondata nelle spalle e incapace di dire se ero io. Mi chiedevo soltanto dove avessi letto quella frase: "La morte è un processo rettilineo", se era in inglese, in francese o in una traduzione...

In quel momento, ha deciso di metterci sullo stesso piano: con un colpo di reni ha sollevato me e la sedia da terra e ci ha posati di fronte a lui, sulla scrivania. Anche così, continuava a dominare la situazione di una buona testa. Da sotto le sopracciglia cespugliose, il suo occhio da cinghiale mi frugava nella coscienza come se avesse perso le chiavi.
- Si diverte, lei, a torturare la gente.
Aveva una voce curiosamente infantile, con un accento di dolore che voleva incutere terrore.
- E' così?
E io, lassù, sul mio trono, incapace di pensare ad altro che a quella fottuta frase. Neanche bella. Un'imitazione. Probabilmente un francese che vuole fare l'amerikano. Dove l'ho letta?
- Non ha mai paura che qualcuno venga a spaccarle la faccia?
Le braccia avevano cominciato a tremargli e comunicavano ai braccioli della poltrona la vibrazione profonda di tutto il suo corpo, sul genere rullio di tamburo prima del terremoto.
E' stato lo squillo del telefono a scatenare il cataclisma. Il telefono ha squillato. Le dolci modulazioni liquide dei telefoni di oggi, i telefoni-memoria, i telefoni-programmi, i telefoni distinti, direttoriali per tutti...
Il telefono è esploso sotto il pugno del gigante.
- E tu taci!
Ho avuto la visione della mia capa, la regina Zabo, lassù , all'altro capo del filo, conficcata nella moquette fino alla cintola dalla mazzata.
Quindi il gigante si è impossessato della mia lampada semi direttoriale e ne ha spezzato il legno esotico sul ginocchio prima di chiedere:
- Non le è mai venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto capitare qui e farle a pezzi l'ufficio?
Era uno di quei pazzi furiosi nei quali il gesto anticipa sempre la parola. Prima che avessi potuto rispondere, la base della lampada aveva ritrovato l'originaria funzione di clava tropicale e si era abbattuta sul computer, il cui schermo si sparpagliò in pallidi frammenti. Un buco nella memoria del mondo. Come se non bastasse, il mio gigante ha martellato la tastiera fino a riempire l'aria di simboli restituiti all'anarchia primordiale delle cose. Dio santo! Se l'avessi lasciato fare saremmo tornati dritti alla preistoria.
Adesso, non badava più a me. Aveva ribaltato la scrivania di Macon, la segretaria, e con un calcio aveva spedito un cassetto pieno di graffette, timbri, smalti per unghie a schiantarsi tra le due finestre. Poi, armato del portacenere a piede che dagli anni cinquanta oscillava graziosamente sulla sua semisfera piombata, attaccò metodocamente la libreria di fronte. Se la prendeva con i libri e la base di piombo faceva danni spaventosi. Quel tizio possedeva l'istinto delle armi primitive. A ogni colpo che sferrava, emetteva un gemito infantile, uno di quegli urli di impotenza che immagino facciano da abituale colonna sonora ai delitti passionali: sfracello mia moglie contro il muro, piagnucolando come un marmocchio.
I libri volavano e cadevano morti.
Non c'erano molti modi per fermare il massacro.
Mi sono alzato. Ho afferrato il vassoio del caffè che Macon aveva portato per rabbonire i piantagrane precedenti (una squadra di sei tipografi che la mia principale aveva messo in mezzo a una strada perchè avevano consegnato con sei giorni di ritardo) e ho scagliato il tutto nella libreria a vetri dove la regina Zabo espone le sue rilegature più belle. Le tazze vuote, la caffettiera mezza piena, il vassoio d'argento e le schegge di vetro fecero un frastuono tale che l'altro si immobilizzò, il portacenere alzato sopra la testa, e si voltò verso di me.
- Cosa sta facendo?
- Faccio come lei, comunico.
E scagliai al di sopra della sua testa il fermacarte di cristallo che Clara mi aveva regalato all'ultimo compleanno. Il fermacarte, una testa di cane che somigliava vagamente a Julius (scusa Clara, scusa Julius), sfondò la faccia del vecchio Talleyrand-Périgord, fondatore occulto delle Edizioni del Taglione in un periodo in cui, proprio come oggi, tutti avevano bisogno di carta per regolare i conti con tutti.
- Ha ragione, dissi, quando non si può cambiare il mondo, bisogna cambiare l'arredamento.


Daniel Pennac, La Prosivendola, 1990


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