mercoledì, giugno 27, 2007

Sand of life

TIME
(Pink Floyd)


Ticking away the moments that make up a dull day
You fritter and waste the hours in an off hand way
Kicking around on a piece of ground in your home town
Waiting for someone or something to show you the way

Tired of lying in the sunshine staying home to watch the rain
You are young and life is long and there is time to kill today
And then one day you find ten years have got behind you
No one told you when to run, you missed the starting gun

And you run and you run to catch up with the sun, but its sinking
And racing around to come up behind you again
The sun is the same in the relative way, but youre older
Shorter of breath and one day closer to death

Every year is getting shorter, never seem to find the time
Plans that either come to naught or half a page of scribbled lines
Hanging on in quiet desperation is the english way
The time is gone, the song is over, thought I'd something more to say



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lunedì, giugno 25, 2007

Sotto la citazione niente

"A prova di Morte" ("Death Proof"), scritto e diretto da Quentin Tarantino, USA, 2007.

Sin dall'uscita (e dal successo) di Pulp Fiction, non si può negare che Quentin Tarantino sia diventato uno dei nomi-simbolo del cinema mondiale, suscitando, così, curiosità, attesa ed enormi aspettative ogni volta che lo si sapeva dietro la macchina da presa. Amati o odiati, i film dei quali ha firmato la regia hanno sempre rappresentato un buon terreno di scontro dialettico tra fautori e detrattori, comunque un paletto del quale tenere conto, a prescindere dalle proprie preferenze cinematografiche.

Con queste premesse, ma anche a seguito delle vicissitudini produttive e delle indiscrezioni provenienti dal set, in molti eravamo in trepidante attesa di Grindhouse: un film-manifesto già a partire dallo stesso titolo, dagli interpreti, dalle locandine, dalle foto di scena e, soprattutto, dall'annunciata struttura a polittico.

Purtroppo, non ben precisate scelte della distribuzione europea, hanno voluto che i due segmenti Death Proof e Planet Terror (rispettivamente opera di Tarantino e Robert Rodriguez) fossero distribuiti e programmati separatamente ed hanno dunque spinto il Tarantino-regista a rimaneggiare il montaggio (e prolungare il metraggio) di quello che doveva essere, nei piani originari, soltanto uno degli episodi dell'intero film, rendendo vano, col senno di poi, l'unico aspetto veramente interessante e sensato (inteso come avente senso) di Death Proof.

Sull'attitudine tarantiniana di proporre e riproporre pezzi di immaginario da celluloide è stato detto di tutto: la sua tendenza di cinefago onnivoro col pallino degli anni '70 è emersa fin da Le Iene e (serve dirlo?) Pulp Fiction, per arrivare a sclerotizzarsi nella sua forma più anabolizzata e mirabolante nei parossismi visivi di Kill Bill; in questo Death Proof, però, il gioco sembra mostrare la corda e tradire una certa mancanza di vera ispirazione.

Se è vero che le recenti esternazioni del regista a proposito del cinema italiano contemporaneo hanno fatto storcere parecchi nasi, è pur vero che la sua dichiarazione andrebbe letta alla luce dell'ossessione del cineasta di Knoxville per il cinema di genere (quello sì, davvero morto nel nostro paese); eppure, stavolta neanche il suo colpo va a segno e devo ammettere che mi è dispiaciuto dover toccare con mano l'esaurimento di quella vena cine-aurifera che pareva essere ben lungi dall'esaurirsi ed avere ancora tanto da seminare.

Andiamo sul concreto e spieghiamo come stanno le cose: Death Proof narra le vicende di un maniaco che gode nel pedinare, terrorizzare e, talvolta, uccidere le sue vittime con delle auto rinforzate a prova di incidente.

Intreccio? Zero! Il contenuto della pellicola, in realtà, dovrebbe stare tutto nella forma, la quale, a sua volta, non fa che rimandare ad altro, cioè al cinema di serie B degli anni '70, quello cosiddetto d'exploitation, quello, appunto, in programma nelle sale grindhouse (sale di infima categoria dalla programmazione a base di film horror, violenti e/o velatamente pruriginosi).
Se da una parte questo atto di onanistico piacere cinefiliaco può indurre in tentazione lo spettatore durante le prime sequenze, basta andare un po' avanti per rendersi conto del fiato corto che affligge il film stesso, anzi, l'effetto diventa quasi di rigetto quando il citazionismo si fa pleonastico e, spesso, autocompiaciuto, ad esempio in occasione delle tonnellate di citazioni da Le Iene, Pulp Fiction e Kill Bill (le quali, più che strizzare l'occhio all'appassionato tarantiniano, stufano quanto una pubblicità di loghi&suonerie) o la pletora di titoli e poster di cult movies snocciolati ad ogni dialogo ed inquadratura.

Il motivo di tale procedere alla deriva sembra dovuto all'accumulo compulsivo di elementi senza una chiara visione d'insieme, quasi il regista si fosse lasciato prendere la mano durante le riprese per dare vita ai propri capricci filmografici più reconditi, salvo trovarsi in difficoltà al momento di tirare le somme e trasformare il girato in un corpus organico. I cambi di fotografia e registro appaiono del tutto arbitrari ed insensati ed i famosi dialoghi tarantiniani delle sue prime pellicole (memorabili per il gusto così squisitamente post-pop) vengono scimmiottati da inconcludenti scambi di battute ripetitive dal sapore men che insipido.

Peccato, perchè, in fondo, di elementi saporiti ce ne potrebbero essere eccome! Uno splendido Kurt Russell a metà tra una versione imbolsita di Jena Plissken ed un villain di Russ Meyer, luciferino e anacronistico al tempo stesso come un vero demone texano; una manciata di ragazze dal look (e dal sex appeal) tanto conturbante e seventies da far venire le palpitazioni (la lap dance di Vanessa Ferlito suscita bollori non indifferenti), una sfilata di muscle cars da fare impallidire i più scatenati feticisti di cromature e motori V8 e, non ultima, una colonna sonora fatta di titoli e nomi sconosciuti ai più, ma, destinati a risuonare a lungo negli altoparlanti delle autoradio.
Insomma, più che mai possiamo dire che qui il totale è meno della somma delle parti! Colpa forse di un Tarantino troppo traviato dai propri sogni proibiti al punto di non sapere più discernere le idee dalle gratuità?!

La mia impressione (ampiamente condivisa anche dall'amico Bravo Ragazzo) è quella di un film sbilanciato, un potenziale godevole divertissement... se solo si fosse tenuta fede al progetto originale del film in due parti, se solo Tarantino si fosse dimenticato di essere Tarantino ed avesse messo la macchina da presa al servizio di una più sintetica storia alla Joe Lansdale, se solo avesse rinunciato ad infarcire il tutto dell'indigesta mistica citazionista videotecara alla quale si è consacrato fino al fanatismo.

Da vedere? Solo se non saprete tenere a bada la vostra curiosità. Solo se non vorrete comunque perdervi l'ultima tarantinata. Solo se vorrete indagare in prima persona l'argomento delle vostre prossime dispute cinefile.
Se invece v'interessa principalmente guardare un bel film... allora scegliete qualcos'altro senza troppi rimpianti!

Beh... comunque decidiate...

Buona visione!...


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sabato, giugno 23, 2007

Gli pseudopodi della Legge

Il bambino era inchiodato alla porta come un uccello del malaugurio. I suoi occhi plenilunio erano quelli di una civetta.

Loro erano sette e salivano le scale quattro a quattro. Naturalmente ignoravano che questa volta gli avevano inchiodato un moccioso alla porta. Pensavano di avere già visto tutto e quindi correvano verso la sorpresa. Ancora due piani e un piccolo Gesù di sei o sette anni avrebbe sbarrato loro la strada. Un bimbo-dio inchiodato vivo a una porta. Chi può immaginare una cosa simile?
Belleville aveva già fatto loro di tutto, cos'altro potevano fare? Erano stati accolti con lanci di carne morta e bucce, orde di femmine gli avevano graffiato la faccia urlando degli youyou, un giorno avevano dovuto sgomberare sei piani da un gregge di ovini, qualche centinaio di pecore innamorate protette da montoni gelosamente poligami, un'altra volta avevano trovato l'edificio deserto, abbandonato a ritroso da una marea umana che, evacuare per evacuare, aveva scaricato se stessa su ogni gradino. Tutt'altra cosa, quel tappeo di gloria, rispetto alle mattine in cui la merda cadeva direttamente dal cielo sulle loro teste ben pettinate di pubblici ufficiali.
Di tutto, Belleville gli aveva già fatto di tutto, ma non era mai successo, nemmeno una volta, che loro lasciassero i luoghi senza aver aperto la porta che erano venuti ad aprire, senza avere sequestrato i mobili che erano venuti a sequestrare, senza aver sfrattato gli indesiderabili che avevano l'incarico di sfrattare. Erano in sette e non fallivano mai. Avevano il Diritto dalla loro. O meglio, erano il Diritto, gli pseudopodi della Legge, i cavalieri della prelazione, i sacri custodi della soglia di tolleranza. Avevano studiato a lungo per questo, avevano coltivato la loro mente e imparato a dominare le emozioni. Se ne infischiavano dei soprassalti di orgoglio, delle fantasie della disperazione. Eppure avevano un'anima. E buoni muscoli intorno all'anima. Distribuivano botte o parole di consolazione, secondo quel che la clientela desiderava, ma facevano sempre ciò che dovevano fare. Erano umani, insomma, meravigliosi animali sociali.

Avevano anche dei nomi. L'ufficiale giudiziario si chiamava La Herse, l'avvocato La Herse di rue Saint-Maur, il suo studente praticante aveva nome Clément, anche i quattro operai avevano dei nomi, e soprattutto il fabbro ferraio, un soprannome che la gente di Belleville pronunciava sputando per terra: Six la Neve. Six la Neve, l'apriti sesamo del sequestro, il grimaldello dello sfratto, il passe-partout preferito dello studio La Herse.

L'interrogativo su come Six potesse continuare ad abitare a Belleville pur prendendo parte a tutti gli sfratti passava talora per la mente dell'avvocato La Herse, ma non vi si soffermava mai. Ce ne saranno sempre, di sbirri insultati, di prof sbeffeggiati, di tenori fischiati e di ufficiali giudiziari che godranno dell'odio che suscitano. Perchè non un fabbro ferraio-buttafuori sullo stesso marciapiede dei senza tetto? Six ci avrà avuto il suo tornaconto in emozioni forti. Così concludeva l'avvocato La Herse, con il suo misurato realismo.

Salivano dunque verso il piccolo crocifisso, con l'anima in pace e la mente all'erta. Il silenzio avrebbe dovuto metterli in allarme, ma tutto, in quei palazzi di Belleville, cominciava sempre con il silenzio. Erano abituati a lavorare in squadra, si fidvano dei loro riflessi. Salivano di corsa: era il loro marchio di fabbrica. Agivano in fretta e senza esitazioni. Lo studente Clément correva in testa, seguito dal suo capo e dai quattro operai. Dietro, anche Six correva, nonostante i suoi buoni sessant'anni d'infamia.

L'avvocato La Herse non vide subito il bambino, bensì la faccia del praticante Clément.
Che si era immobilizzato sul pianerottolo del quarto piano.
Che si era girato su se stesso, piegato in due come un pugile colpito al fegato.
Con gli occhi rovesciati agli antipodi.
Con la bocca che all'improvviso aveva avuto profondità da cratere.
Da cui era sgorgato un fiume impetuoso, arcuato, mallo di noce di prodigiosa acidità e di notevole qualità nutrizionale.
Come il giovanotto non aveva fatto in tempo ad arginare la cateratta, così all'avvocato La Herse non venne in mente di proteggersi. La sua stessa brioche ritornò a galla, seguita dgli otto caffè corretti che i quattro operai si erano sparati aspettando l'ora legale dello sfratto.

Solo il fabbro ferraio scampò a quel tiro di sbarramento.
"Che cazzo succede?"
Fu tutto quello che gli ispirò il suo innato senso della compassione. Lungi dal pensare di svignarsela, Six la Neve si aprì un varco fra le convulsioni. Sul pianerottolo del quarto piano, l'ufficiale giudiziario praticante, rannicchiato ai piedi del muro, procedeva ora per brevi raffiche, destinate perlopiù alle scarpe del suo principale.

Allora Six vide il bambino.
"Santo Dio!"
Si voltò e disse, indicandolo:
"Avete visto questa roba?"
Ma capì, dalla qualità del suo sguardo, che l'avvocato La Herse non vedeva altro che quella roba. Era il volto stesso della rivelazione. Anche gli operai avevano facce celestiali. Angeli medievali inorriditi dal rovescio delle cose.

Adesso tutti guardavano il bambino. E anche attraverso le dita appiccicose del giovane praticante, il bambino non era un bello spettacolo. I rossi chiodi dalla testa piramidale - materiale autenticamente biblico secondo l'iconografia hollywoodiana - dovevano aver polverizzato le ossa, e la carne era schizzata tutt'intorno. Il bambino non sembrava inchiodato, ma sfracellato davanti a loro, scagliato contro quella porta da una forza di altri tempi.
"Ce n'è dappertutto."
Si parla così dei morti, di cui la nostra vita ci dice che ormai sono soltanto materia. La suddetta materia, grumosa e sanguinolenta, tappezzava il pianerottolo ben oltre gli stipiti della porta.
"Non gli hanno nemmeno tolto gli occhiali."
Sì, e come spesso accade, quel dettaglio insignificante accresceva immensamente l'orrore.
Lo sguardo dilatato del bambino fissava il gruppetto attraverso il doppio cerchio degli occhiali rosa. Sguardo di civetta sacrificata.
"Come hanno potuto... come?"
L'avvocato La Herse si scopriva improvvisamente ostile a ogni forma di violenza.
"Guardate, respira ancora."
Se si poteva chiamare respiro quel sibilo di polmoni sparpagliati. Se si poteva chiamare respiro quella schiuma rosata che imperlava le labbra del bambino.
"Le mani... i piedi..."
Né mani né piedi... probabilmente maciullati dai chiodi mostruosi all'interno della djellaba. Ed era proprio questa la cosa peggiore, la djellaba quattro volte amputata, che era stata bianca.
"La polizia, chiamate subito la polizia!"
L'avvocato La Herse aveva lanciato l'ordine senza riuscire a staccare gli occhi dal bambino suppliziato.
"Niente polizia!"
Su questo punto, Six la Neve non transigeva.
"Da quando in qua, la polizia?"
Uno dei loro princìpi era infatti quello di non ricorrere mai alle forze dell'ordine. Da quando in qua un pubblico ufficiale competente, che ha prestato debito giuramento, perfettamente assistito, aveva bisogno del concorso della forza pubblica per assolvere il proprio incarico?

Quindi il vecchio fabbro scrutò tranquillamente la faccia del piccolo martire.
Allora il bambino parlò. Distintamente, ma come un'anima che già s'invola.
Il bambino disse:
"Non entrate".
Six inarcò le soppracciglia.
"Possiamo sapere il perchè?"
Il bambino disse:
"Dentro è ancora peggio".
Difficile immaginare una risposta più dissuasiva, ma essa non turbò affatto il fabbro. Percorrendo con uno sguardo tranquillo la massa sanguinolenta, si limitò a chiedere:
"Posso assaggiare?"
Senza aspettare l'autorizzazione, tuffò il dito indice nella ferita che lacerava la djellaba sul fianco destro del bambino, lo leccò con cura, fece schioccare la lingua e concluse:
"Harissa".
Gli occhi rivolti al cielo cercavano sfumature:
"Harissa... Ketchup..."
Schioccava la lingua come un vero intenditore:
"Una punta di marmellata di lamponi..."
Neanche avesse passato la vita a mangiare martirio.
"Ma perchè le cipolle?"
"Per fare la pelle," rispose prontamente il piccolo, "i pezzi di pelle sulla porta, vengono bene..."
Ora Six lo guardava teneramente.
"Stronzetto, va..."
Poi la sua voce ripiegò in fondo alle viscere:
"Adesso te la do io una bella deposizione, vedrai..."
Non sorrideva più, ora, ringhiava, inveiva addirittura: perdio, avrebbe tirato giù quel merdosetto in meno tempo di quel che ci vuole per convertirsi alla vera fede! Inveiva, e di colpo alzò due mani adunche come la vendetta.

Fu allora che avvenne il miracolo.
Le mani del fabbro si avventarono su una djellaba che aveva reso l'anima.
Il bambino non era più lì.
Il resto del gruppo non capì, in un primo momento, perchè Six crollasse tenendosi il basso ventre, né riuscì a riconoscere un bambino tutto nudo in quella cosa rosa e lucida che urlando saltava oltre il corpo dello studente praticante Clément e si precipitava giù per le scale senza scivolare sui resti delle loro prime colazioni. Quando infine capirono che quell'anima portava scarpe da ginnastica, quando associarono quell'albicocca danzante al culetto di un bambino più vivo che mai, era troppo tardi: le porte dei piani inferiori si erano aperte su un baccano di mocciosi multicolori che facevano da scorta al piccolo dio risuscitato.


Daniel Pennac, Signor Malaussene, 1995

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domenica, giugno 17, 2007

That's so humorous!

Ricordo il pomeriggio di una pigra domenica di tanti anni fa, un pomeriggio trascorso insieme all'amica Cec tra una tazza di tè ed alcune delle nostre tipiche interminabili chiacchierate. Ricordo che infine mettemmo su una videocassetta e che risi di gusto per tutta la durata del film. Il film in questione era Amore e Guerra (Love and Death) di Woody Allen e da allora questo film è rimasto nella mia mente, insieme ad un altro paio, quale simbolo irrevocabile del più puro ed immortale umorismo cinematografico!

Se un giorno doveste avere una di quelle giornate no, che solo una sana e fragorosa risata può risolvere, tenete a portata di mano una copia di questo capolavoro del riso firmato dall'occhialuto cerebroide di New York!




Gentiluomo -Vieni a casa mia domani alle tre.

Sonja -Non posso.

Gentiluomo -Ti prego...

Sonja -E' immorale!... A che ora?

Gentiluomo -Chi decide che cosa è morale?

Sonja -La moralità è soggettiva.

Gentiluomo -Ma la soggettività è oggettiva!

Sonja -I principi morali implicano attributi per contenuti che esistono solo nella dualità relativa!

Gentiluomo -Non come estensione essenziale di esistenza ontologica...

Sonja -Sarebbe possibile non parlare tanto di sesso?!...


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mercoledì, giugno 13, 2007

Etimologie chiarificatrici

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