sabato, giugno 23, 2007

Gli pseudopodi della Legge

Il bambino era inchiodato alla porta come un uccello del malaugurio. I suoi occhi plenilunio erano quelli di una civetta.

Loro erano sette e salivano le scale quattro a quattro. Naturalmente ignoravano che questa volta gli avevano inchiodato un moccioso alla porta. Pensavano di avere già visto tutto e quindi correvano verso la sorpresa. Ancora due piani e un piccolo Gesù di sei o sette anni avrebbe sbarrato loro la strada. Un bimbo-dio inchiodato vivo a una porta. Chi può immaginare una cosa simile?
Belleville aveva già fatto loro di tutto, cos'altro potevano fare? Erano stati accolti con lanci di carne morta e bucce, orde di femmine gli avevano graffiato la faccia urlando degli youyou, un giorno avevano dovuto sgomberare sei piani da un gregge di ovini, qualche centinaio di pecore innamorate protette da montoni gelosamente poligami, un'altra volta avevano trovato l'edificio deserto, abbandonato a ritroso da una marea umana che, evacuare per evacuare, aveva scaricato se stessa su ogni gradino. Tutt'altra cosa, quel tappeo di gloria, rispetto alle mattine in cui la merda cadeva direttamente dal cielo sulle loro teste ben pettinate di pubblici ufficiali.
Di tutto, Belleville gli aveva già fatto di tutto, ma non era mai successo, nemmeno una volta, che loro lasciassero i luoghi senza aver aperto la porta che erano venuti ad aprire, senza avere sequestrato i mobili che erano venuti a sequestrare, senza aver sfrattato gli indesiderabili che avevano l'incarico di sfrattare. Erano in sette e non fallivano mai. Avevano il Diritto dalla loro. O meglio, erano il Diritto, gli pseudopodi della Legge, i cavalieri della prelazione, i sacri custodi della soglia di tolleranza. Avevano studiato a lungo per questo, avevano coltivato la loro mente e imparato a dominare le emozioni. Se ne infischiavano dei soprassalti di orgoglio, delle fantasie della disperazione. Eppure avevano un'anima. E buoni muscoli intorno all'anima. Distribuivano botte o parole di consolazione, secondo quel che la clientela desiderava, ma facevano sempre ciò che dovevano fare. Erano umani, insomma, meravigliosi animali sociali.

Avevano anche dei nomi. L'ufficiale giudiziario si chiamava La Herse, l'avvocato La Herse di rue Saint-Maur, il suo studente praticante aveva nome Clément, anche i quattro operai avevano dei nomi, e soprattutto il fabbro ferraio, un soprannome che la gente di Belleville pronunciava sputando per terra: Six la Neve. Six la Neve, l'apriti sesamo del sequestro, il grimaldello dello sfratto, il passe-partout preferito dello studio La Herse.

L'interrogativo su come Six potesse continuare ad abitare a Belleville pur prendendo parte a tutti gli sfratti passava talora per la mente dell'avvocato La Herse, ma non vi si soffermava mai. Ce ne saranno sempre, di sbirri insultati, di prof sbeffeggiati, di tenori fischiati e di ufficiali giudiziari che godranno dell'odio che suscitano. Perchè non un fabbro ferraio-buttafuori sullo stesso marciapiede dei senza tetto? Six ci avrà avuto il suo tornaconto in emozioni forti. Così concludeva l'avvocato La Herse, con il suo misurato realismo.

Salivano dunque verso il piccolo crocifisso, con l'anima in pace e la mente all'erta. Il silenzio avrebbe dovuto metterli in allarme, ma tutto, in quei palazzi di Belleville, cominciava sempre con il silenzio. Erano abituati a lavorare in squadra, si fidvano dei loro riflessi. Salivano di corsa: era il loro marchio di fabbrica. Agivano in fretta e senza esitazioni. Lo studente Clément correva in testa, seguito dal suo capo e dai quattro operai. Dietro, anche Six correva, nonostante i suoi buoni sessant'anni d'infamia.

L'avvocato La Herse non vide subito il bambino, bensì la faccia del praticante Clément.
Che si era immobilizzato sul pianerottolo del quarto piano.
Che si era girato su se stesso, piegato in due come un pugile colpito al fegato.
Con gli occhi rovesciati agli antipodi.
Con la bocca che all'improvviso aveva avuto profondità da cratere.
Da cui era sgorgato un fiume impetuoso, arcuato, mallo di noce di prodigiosa acidità e di notevole qualità nutrizionale.
Come il giovanotto non aveva fatto in tempo ad arginare la cateratta, così all'avvocato La Herse non venne in mente di proteggersi. La sua stessa brioche ritornò a galla, seguita dgli otto caffè corretti che i quattro operai si erano sparati aspettando l'ora legale dello sfratto.

Solo il fabbro ferraio scampò a quel tiro di sbarramento.
"Che cazzo succede?"
Fu tutto quello che gli ispirò il suo innato senso della compassione. Lungi dal pensare di svignarsela, Six la Neve si aprì un varco fra le convulsioni. Sul pianerottolo del quarto piano, l'ufficiale giudiziario praticante, rannicchiato ai piedi del muro, procedeva ora per brevi raffiche, destinate perlopiù alle scarpe del suo principale.

Allora Six vide il bambino.
"Santo Dio!"
Si voltò e disse, indicandolo:
"Avete visto questa roba?"
Ma capì, dalla qualità del suo sguardo, che l'avvocato La Herse non vedeva altro che quella roba. Era il volto stesso della rivelazione. Anche gli operai avevano facce celestiali. Angeli medievali inorriditi dal rovescio delle cose.

Adesso tutti guardavano il bambino. E anche attraverso le dita appiccicose del giovane praticante, il bambino non era un bello spettacolo. I rossi chiodi dalla testa piramidale - materiale autenticamente biblico secondo l'iconografia hollywoodiana - dovevano aver polverizzato le ossa, e la carne era schizzata tutt'intorno. Il bambino non sembrava inchiodato, ma sfracellato davanti a loro, scagliato contro quella porta da una forza di altri tempi.
"Ce n'è dappertutto."
Si parla così dei morti, di cui la nostra vita ci dice che ormai sono soltanto materia. La suddetta materia, grumosa e sanguinolenta, tappezzava il pianerottolo ben oltre gli stipiti della porta.
"Non gli hanno nemmeno tolto gli occhiali."
Sì, e come spesso accade, quel dettaglio insignificante accresceva immensamente l'orrore.
Lo sguardo dilatato del bambino fissava il gruppetto attraverso il doppio cerchio degli occhiali rosa. Sguardo di civetta sacrificata.
"Come hanno potuto... come?"
L'avvocato La Herse si scopriva improvvisamente ostile a ogni forma di violenza.
"Guardate, respira ancora."
Se si poteva chiamare respiro quel sibilo di polmoni sparpagliati. Se si poteva chiamare respiro quella schiuma rosata che imperlava le labbra del bambino.
"Le mani... i piedi..."
Né mani né piedi... probabilmente maciullati dai chiodi mostruosi all'interno della djellaba. Ed era proprio questa la cosa peggiore, la djellaba quattro volte amputata, che era stata bianca.
"La polizia, chiamate subito la polizia!"
L'avvocato La Herse aveva lanciato l'ordine senza riuscire a staccare gli occhi dal bambino suppliziato.
"Niente polizia!"
Su questo punto, Six la Neve non transigeva.
"Da quando in qua, la polizia?"
Uno dei loro princìpi era infatti quello di non ricorrere mai alle forze dell'ordine. Da quando in qua un pubblico ufficiale competente, che ha prestato debito giuramento, perfettamente assistito, aveva bisogno del concorso della forza pubblica per assolvere il proprio incarico?

Quindi il vecchio fabbro scrutò tranquillamente la faccia del piccolo martire.
Allora il bambino parlò. Distintamente, ma come un'anima che già s'invola.
Il bambino disse:
"Non entrate".
Six inarcò le soppracciglia.
"Possiamo sapere il perchè?"
Il bambino disse:
"Dentro è ancora peggio".
Difficile immaginare una risposta più dissuasiva, ma essa non turbò affatto il fabbro. Percorrendo con uno sguardo tranquillo la massa sanguinolenta, si limitò a chiedere:
"Posso assaggiare?"
Senza aspettare l'autorizzazione, tuffò il dito indice nella ferita che lacerava la djellaba sul fianco destro del bambino, lo leccò con cura, fece schioccare la lingua e concluse:
"Harissa".
Gli occhi rivolti al cielo cercavano sfumature:
"Harissa... Ketchup..."
Schioccava la lingua come un vero intenditore:
"Una punta di marmellata di lamponi..."
Neanche avesse passato la vita a mangiare martirio.
"Ma perchè le cipolle?"
"Per fare la pelle," rispose prontamente il piccolo, "i pezzi di pelle sulla porta, vengono bene..."
Ora Six lo guardava teneramente.
"Stronzetto, va..."
Poi la sua voce ripiegò in fondo alle viscere:
"Adesso te la do io una bella deposizione, vedrai..."
Non sorrideva più, ora, ringhiava, inveiva addirittura: perdio, avrebbe tirato giù quel merdosetto in meno tempo di quel che ci vuole per convertirsi alla vera fede! Inveiva, e di colpo alzò due mani adunche come la vendetta.

Fu allora che avvenne il miracolo.
Le mani del fabbro si avventarono su una djellaba che aveva reso l'anima.
Il bambino non era più lì.
Il resto del gruppo non capì, in un primo momento, perchè Six crollasse tenendosi il basso ventre, né riuscì a riconoscere un bambino tutto nudo in quella cosa rosa e lucida che urlando saltava oltre il corpo dello studente praticante Clément e si precipitava giù per le scale senza scivolare sui resti delle loro prime colazioni. Quando infine capirono che quell'anima portava scarpe da ginnastica, quando associarono quell'albicocca danzante al culetto di un bambino più vivo che mai, era troppo tardi: le porte dei piani inferiori si erano aperte su un baccano di mocciosi multicolori che facevano da scorta al piccolo dio risuscitato.


Daniel Pennac, Signor Malaussene, 1995

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