lunedì, agosto 14, 2006

Bolle d'autore


"Bubble", regia di Steven Soderbergh, scritto da Coleman Hough, USA, 2005.

Circa un anno fa o poco più, il regista Steven Soderbergh ha concordato e firmato un contratto con la HDnet Films per un ciclo di film girati e distribuiti in maniera molto mirata.
E' previsto che quello che lo stesso regista chiama il suo "Ciclo Americano" sia composto da sei film girati in formato digitale ad alta definizione, distribuiti contemporaneamente in sala, in dvd e su un canale via cavo dedicato.
Da un punto di vista più prettamente contenutistico, il regista ha stabilito che i film verranno girati in sei diverse località degli Stati Uniti, che le storie saranno strettamente correlate al luogo in cui verranno girate e che gli interpreti saranno attori non professionisti scelti tra gli abitanti del posto.
Il primo frutto di questo accordo è, appunto, il film "Bubble".

Sin dagli inizi della sua carriera, con la pellicola d'esordio "Sesso, bugie e videotapes" (1989), Soderbergh ha sempre dimostrato di essere un cineasta in cerca di qualcosa, un'identità artistica, una cifra stilistica o, più semplicemente, una concezione formale che fosse esplicita. Dopo il successo di "Out of sight" (1998) ed "Erin Brockovich" (2000), il suo approdo ai budget (ed alle star) degli studios, ha fatto di lui un personaggio dall'identità molteplice. L'autore di grossi film di cassetta destinati al grande pubblico ("Traffic", 2000, "Ocean's Eleven", 2001, "Ocean's Twelve", 2004) convive con il regista di piccoli film indipendenti dallo stile insolito (addirittura, in rapporto alla piattezza stilistica hollywoodiana, qualcuno oserebbe dire "sperimentali") ed anche col produttore di pellicole non propriamente mainstream (tra tutte "Naqoyqatsi" di Godfrey Reggio, "The Jacket" di John Maybury ed il recente "Syriana" di Stephen Gaghan), per non contare il curioso e prolifico legame con l'attore-regista George Clooney ("Confessioni di una mente pericolosa", 2002, e "Good Night, and Good Luck", 2005).
La ricerca stilistica di Soderbergh, comunque, lo ha spinto a realizzare prodotti spesso interessanti, ma talvolta un po' speciosi ed autocompiaciuti, quasi semplici esercizi di stile.

Nel caso di "Bubble", invece, si ha la sensazione che il film abbia un'idea, un concetto molto forte alla sua base e che, attraverso uno stile all'insegna del realismo e del rigore figurativo più diretto, il bersaglio sia stato centrato in pieno.

Girato, appunto, con tecnologia digitale ad alta definizione e perlopiù con luce ambientale, servendosi di una troupe di sole dodici persone, pochi attori non professionisti, dialoghi in buona parte improvvisati dagli interpreti, location reali (da alcune interviste, sembra emergere che le case dei set siano le stesse degli interpreti) ed un intreccio ridotto all'osso, quasi del tutto assente, questo film, a dispetto della durata piuttosto breve (poco più di 70 minuti), dice molto di più di quello che racconta, rinunciando quasi totalmente all'affabulazione degli eventi, per mostrare le proprie tematiche attraverso la forza delle immagini, degli ambienti, delle fisionomie e dei gesti dei tre protagonisti.
"Bubble" inscena un episodio di cronaca nera in seno alla comunità di una piccola cittadina che si trova tra l'Ohio ed il West Virginia, una delle zone economicamente più problematiche degli Stati Uniti, dove gli abitanti vivono in tristi ed anonime case e sono costretti a svolgere due o più lavori, con risultati disastrosi per i rapporti familiari e sociali in genere.
Quello su cui si focalizza l'attenzione non è tanto l'episodio criminoso in sé e per sé, quanto la condizione di vita senza prospettive che scandisce giorno dopo giorno le vite scialbe di questi operai di una fabbrica di bambole.

Lontano dalle frenesie di montaggio pseudo-nouvelle-vague de "L'Inglese" ("The Limey", 1999) quanto dalla velleità visiva e narrativa schizofrenica di "Full Frontal" (2002), Soderbergh ha in questo caso elaborato uno stile perfettamente coerente alle tematiche ed ai motivi che sottendono all'intero film, lunghe inquadrature ferme e rigorose a sottolineare la drammaticità di queste esistenze, proporzioni spaziali ricercate ma non eccessive, appropriati campi-controcampi senza patetismi di sorta, un placido equilibrio disperato tra i piccoli totali sulle facciate delle case di legno ed i primi piani disarmanti degli attori, poche, fluide e lente panoramiche descrittive dei non-luoghi che caratterizzano la cittadina, punti-macchina frontali rispetto ai soggetti per delle visioni dalla spiazzante chiarezza.
Niente macchina a mano, questo film rinuncia alla "mobilità del digitale" per fare capo alla sua opprimente stabilità fotografica (come ammesso dallo stesso regista che qui ha curato anche la Fotografia ed il Montaggio, sebbene questo non compaia nei titoli di coda), quasi rimandando alle ricerche ambientali di certi fotografi negli anni '70 ed '80.
Le diverse scene all'interno della fabbrica di bambole e l'inquietante sequenza muta dei titoli di coda, fatta di fermo-immagine sui pezzi accatastati delle bambole, mostrano come i dolci sorrisi di queste nascano nel più alienante dei contesti, tra turni doppi e gesti replicati all'infinito e svelano la natura mostruosa della genesi del prodotto di massa (a tal proposito, è fulminante l'immediatezza della scena in cui gli occhi vengono applicati alla testa delle bambole gonfiando loro la testa fino a deformarla).
A coronare l'intensità dei personaggi ed il vuoto delle loro vite, una disperata colonna sonora extradiegetica punteggia, senza invadenza, con gli accordi insistenti di una chitarra acustica, i momenti più vuoti di queste esistenze.
Le interpetazioni degli attori non professionisti sono ottime, paralizzanti nella loro sincerità (in buona parte ottenuta con i dialoghi improvvisati ed i dettagli che rimandano alla loro reale esperienza quotidiana) e le fisionomie sono quanto di più lontano ci si possa immaginare dagli standard patinati dello star system.
Il risultato globale è quello di un documentario senza narratore, affidato alla potenza svelante della macchina da presa, sulle condizioni di un americano medio ignorato dalla solita rappresentazione fasulla dei mezzi di comunicazione, ma più che reale, cui rimane solo la consolazione di un progetto di fuga dalla realtà in cui vive o l'effimera vanità dello shopping al più vicino Wal-Mart (a tal proposito consiglio vivamente a coloro che guarderanno il film in dvd, di non perdersi i provini dei protagonisti tra i contenuti extra, un'ulteriore conferma dell'adesione delle situazioni rappresentate alle istanze sociali di quei luoghi).

Adesso non rimane che aspettare gli altri film di questo ciclo annunciato, sperando che offrano un esito altrettanto valido, maturo ed interessante.

Buona visione

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