domenica, ottobre 12, 2008

Nei meandri dell'esistenza

Mamma aveva messo insieme un cumulo enorme di carta e si stava dando un gran da fare per trascinarlo e spingerlo nella piccola tana buia che aveva trovato.
Ora, non lasciamoci distrarre dalla dolente cacofonia di grugniti e ansimi che si levano dal suo corpo appesantito, perdendo di vista la questione fondamentale: da dove proveniva tutta quella carta? Di chi erano le parole rotte e le frasi distrutte rimescolate da Mamma in quel guazzauglio indecifrabile che qualche istante dopo avrebbe attutito il ruzzolone con cui sarei venuto al mondo? Aguzzo lo sguardo. C'è molto buio lì dove Mamma ha spinto quel cumulo di carta, che adesso è indaffarata a compattare, pestandolo al centro, e a rialzare lungo i bordi, e così riesco a distinguerlo solo allungandomi sopra il precipizio, sopra l'istante cioè in cui sarei nato. Lo guardo, quel cumulo, da una grande altezza, costringendo tutta la mia immaginazione dentro una sorta di telescopio. Credo di vederlo. Sì, lo riconosco adesso. La mia cara Flo ha ridotto in coriandoli Finnegans Wake. Joyce era Un Grande, forse il Più Grande. Io sono stato sgravato, deposto e allattato sulla carcassa defoliata del capolavoro più non-letto al mondo.

La mia era una famiglia numerosa, e presto noi tredici eravamo cullati tra le strovine di quel libro, per dirla a suo modo, "cinguettanti giovani tazzinbarattoli sparpagliantisi intorno, e aggrumatisi per le loro creme" (così, dopo tutti questi anni, eccomi qua, ancora dedito a questo - aggrumantemi, impazzantemi per le mie creme, le mie croccanti briciole. Oh sogni!) Ben presto tutti quanti lottavamo per accaparrarci dodici capezzoli: Sweeney, Chucky, Luweena, Feenie, Mutt, Peewee, Shunt, Pudding, Elvis, Elvina, Humphrey, Honeychild, e Firmino (che sono io, il tredicesimo). Li ricordo tutti benissimo. Dei mostri. Persino ciechi e nudi, soprattutto nudi. Lungo gli arti, muscoli e tendini simili a tanti piccoli rgonfiamenti, o almeno così mi sembrava allora. Soltanto io sono nato con gli occhi spalancati, ricoperto da una pudica peluria di soffice pelliccia grigia. Ero anche gracile. E, credetemi, essere gracili è una cosa terribile quando si è piccoli.

Ha avuto conseguenze particolarmente lesive sulla mia capacità di partecipare a pieno alla routine alimentare, che di solito andava più o meno così: dovunque fosse stata, Mamma tornava a casa - ruzzolando giù dalle scale fino al seminterrato - sempre d'umore schifoso. Borbottando e lagnandosi come se stesse per compiere un gesto di tale eroismo che nessun'altra madre era stata mai in grado neppure di concepire da che mondo è mondo, si buttava a letto - plop - e s'addormentava all'istante, russando a bocca aperta, completamente sorda al caos che intanto le scoppiava intorno. A suon di graffi e spintoni e morsi, squittendo, tutti e tredici ci tuffavamo all'unisono verso i dodici capezzoli. Latte e follia. In questa gara di melodiose tettarelle, quasi sempre io venivo surclassato.

Sam Savage, Firmino, 2006.


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